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Tibet Chan Tang 1999

1 Gennaio 1999 By wp-backend

Partecipanti: Mario Rossello, Roberto Ruggerone
con: Jigme Wang Due, Lie Kiku, Nyama, Tendi Sherpa, Ram Chandra Sunuwor

Itinerario: Vienna – Kathmandu – Lhasa – Tsetang – Woka valley – Lhamo Latso – Tsetang – Gyantse – Sakya – Namring – Chung Riwoche – Tsochen – Gartse – Ali – Dungkar – Piyang – Tholing – Tsaparang – Mangngang – Thirthapuri – Gurugam – Kyunglung – Manasarovar – Pariyang – Saga – Pelu Tso – Zagmu – Kathtmandu – Vienna

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Giovedì 20 maggio
Sbarchiamo a Kathmandu con il solito intontimento del mattino, dopo una notte passata in aereo. Sul volo Austrian non abbiamo riconosciuto Luca (traduttore del Dalai Lama e antiquario a Bodanath) La città presenta il solito traffico caotico, lo smog e la sporcizia, ma c’è qualche miglioramento nello stato delle strade.
Scendiamo al Garuda, nel cuore del Tamel, con passaggi di secondo grado nel fango: il monsone sta arrivando, e davanti all’albergo stanno scavando trincee per poco probabili lavori alle tubature. L’albergo è decisamente “familiare” (l’ho scelto io influenzato dal romanzo di Krakauer) ma il personale è gentile e i letti accettabili. Ci accorgeremo la notte che è anche molto rumoroso per i molti bar dei dintorni che tengono aperte le radio a tutto volume. Andiamo a spasso, e ci inoltriamo nel traffico congestionato e rumoroso facendo un po’ di attenzione. Gli autisti sono attenti ma la larghezza media delle strade qui è di circa quattro metri. Andando a casaccio verso Durbar Square scopriamo due pregevoli stupa al centro di piccolissime piazze affollate: alcuni tesori architettonici (gli ultimi sopravvissuti: tra qualche anno se non interviene qualche organismo internazionale non ci sarà più nulla) fanno capolino tra botteghe e casupole. Portali intagliati, finestre decorate, carpenteria preziosa.
Il Garuda è un albergo che frequentavano gli alpinisti diretti all’Everest. E’ pieno di fotografie con dedica di Scott e altri, purtroppo quasi tutti sono morti in montagna. Si sente l’eco del racconto di Krakauer in “Aria sottile”, la cronaca della sfortunata spedizione del 96 che fece 9 vittima tra cui diverse guide famose.
Da Khatmandu le montagne non si vedono: la città è un gigantesco mercato, formicolante, agitato e anche piuttosto puzzolente. Si vede qualche grande opera, qualche strada con voglia di grandiosità, ma la vecchia civiltà muore, come dovunque. Si trova di tutto anche a buon prezzo, nuovo, usato, metà e metà, dall’hashisch ai sandali per il rafting che vanno molto quest’anno.
Con Persis, la nostra amica di Asian Trekking, sistemiamo i sospesi in dollari, partiremo per Lhasa mercoledì, possiamo vagabondare per quasi due giorni, e curiosare nei negozi e per Durbar Square, tra i bei palazzi di legno e mattoni della vecchia Kathmandu, nelle decine di botteghine di Tangka. Che esagerazione di cose mediocri, straripanti da rigattieri e antiquari. Gli affari sono rari, i pezzi belli sono più convenienti a New York, ma si sa, c’è sempre l’illusione della scoperta. Compro un piccolo cimbalo per richiamare i demoni (illustrato da Waddell) scegliendo tra due pezzi con un timbro molto diverso. Il mio che ha un bella patina e una bella forma ha un suono meno argentino, ma pare che le vecchie fusioni non fossero mai perfette e quindi bisogna diffidare dai suoni troppo armoniosi.
Comperiamo giacche di pail Patagonia a ventimila lire. Sarà un ottimo acquisto, perché questi capi, forse abusivi ma convenienti ci faranno buona compagnia per tutto il viaggio. Troviamo
carte geografiche che non serviranno a nulla, e vediamo un mucchio di libri che ci ripromettiamo di acquistare al ritorno.

Venerdì 21
Oggi andiamo a Bodanath, c’è un amico Karmapa che ci aspetta. E’ un incarnato, si chiama Chokyi Nyima Rimpoche, ed è l’abate del monastero bianco o Tulku Urgyen’s Gompa o Ka-Nying Shedrup Ling monastery, fondato dal 16° Karmapa nel 1972. La famiglia dell’abate è rinomata della scuola Nyigma e Kagyu, e hanno una libreria di millecinquecento testi sulle scuole Buddiste a disposizione degli studiosi, molti occidentali.
Il grande stupa è luminoso nel sole, e ispira come sempre pace e benevolenza. Saliamo per una stradina (a ore 11 direbbe Luca) al monastero, grande e ben tenuto. Kate, la segretaria ci indica la strada e saliamo al terzo piano fino alla sala delle udienze, che guarda verso lo stupa. Finalmente ci riceve l’abate, che è una persona dolce e cortese, mi abbraccia e ci mette a nostro agio. Ci dà la richiesta benedizione con un oggetto duro avvolto in stoffe dorate: batte con intenzione sulla testa, probabilmente per fare entrare la benedizione in un cranio riluttante, e ci offre una pillola di lunga vita. La accetto sorridendo pregandolo che non sia poi troppo lunga. Ci offre il tè e dopo qualche chiacchiera ce ne andiamo. Una parentesi serena e quasi allegra, un contatto che mi pare molto bello.
A Bodanath giriamo attorno allo stupa ai vari livelli e ci godiamo il grande cortile, e la pace del luogo: al ritorno il Tamel pare davvero un altro mondo.
La sera scoppia una crisi: non ci sono i posti sull’aereo, prenotato da mesi, a Lhasa c’è una festa che durerà tre giorni. Rimandare così a lungo rischia di compromettere il programma. Facciamo una riunione con l’agenzia e ci affidiamo alla buona sorte e alla buona volontà dell’Asian Trekking. L’alternativa è visitare Pokara per due giorni, ma non siamo entusiasti.

Sabato 22
Miracolosamente i posti compaiono, in prima classe. Salutiamo i nostri amici e ci prepariamo spiritualmente al Tibet. Ci sono molte nuvole ma finalmente l’Himalaya svetta sopra le nuvole a quattromila metri e offre il solito presuntuoso spettacolo di candore e di lontananza. Ecco Lhasa, dopo il colore marrone e grigio dell’altopiano, solcato dal grande fiume.
Lhasa è un disastro. Ormai si arriva in una grande arteria inondata di cemento piena di traffico, tra brutte case nuove, e vicino al centro è anche peggio, nuovi alberghi enormi, la China Telecom spicca vicino al Tibet Grand Hotel con un enorme palazzo dai soliti vetri blu, molto alto, che da molte direzioni copre il Potala. Tra alcuni anni non ci sarà più nulla, solo rumore, cinesi e forse qualche piccolo angolo che ricorda il passato: dovremo ricorrere alle foto di Bell e di Harrer per ritrovare la città di un tempo. Alcuni Tibetani passeggiano ignari con i loro mulini da preghiera, fuori dal tempo e dalla Cina, per loro fortuna. Facciamo quattro passi, ma non troppi per la mancanza di ossigeno. L’albergo (il famigerato Grand Hotel) è enorme, non ancora funzionante per qualche oscura ragione sindacale, o per una riunione del popolo annunciata da grandi striscioni rossi.

Domenica 23
Dopo la solita notte tormentata andiamo questa mattina a vedere il Potala. Le macchine arrivano ormai fino all’ingresso, e la grande fortezza è sempre più isolata in mezzo a una immensa piazza cinese. Le grandi opere degli artisti newari e tibetani sono immense nel buio e nel silenzio , rotto solo dallo scalpiccio dei turisti. Ciononostante la magia degli allineamenti di statue, dei re, dei Dalai Lama, delle divinità, è grande e ancor più la magia architettonica delle mura che scivolano verso l’alto. Compriamo un libro recente sulla pittura di Dungkar, edito dalla prefettura di Zanda. Tra poco anche quei posti saranno una attrazione turistica.
Nel pomeriggio visitiamo la parte centrale del Jokhang. Ancora una volta il fascino del luogo e delle preghiere sovrasta ogni cosa. Le grandi porte e i pilastri emergono dal lontanissimo passato, cariche di intagli e figure, i capitelli istoriati inviano i loro messaggi dal tempo. Nell’atrio le mille lampade brillano e oscillano frusciando. Ma quanto è più bello il tempio nel primo mattino, quando le cappelle sono sommerse dall’onda dei pellegrini e la fila si snoda nella luce incerta delle fiamme nelle coppe di rame o d’argento.
Dopo, ci tuffiamo nel traffico del Barkor, nel pomeriggio afoso che cuoce il cervello già mal ridotto per la mancanza di ossigeno. Deviamo dal corso principale per immergerci nelle stradine laterali del quartiere a mezzogiorno, e scopriamo un po’ di quello che resta del vecchio quartiere tibetano, ancora danneggiato dalle bombe e dal degrado dell’abbandono ufficiale.
E’ un quartiere dalla architettura interessante, alcune case hanno facciate decorate, e cortili ampi e fontane, ma la sporcizia e l’incuria caratterizzano le strade, e la mancanza di fognature adeguate si nota ovunque. Le persone sorridono e salutano, si apre uno scorcio di vita totalmente diverso dal livello semi – occidentale dei quartieri cinesi. E’ un miscuglio di fierezza e povertà, di belle rovine e di situazioni inaccettabili. Penso che si sta creando un ghetto, dove si rimane per fierezza e senso di identità, ma contrassegnato della diversità. Il Barkor ha notevole interesse per i locali, ma le centinaia di cianfrusaglie destinate agli occidentali offrono sempre più ciarpame e pochissimi oggetti accettabili: in cinque anni noto un deciso peggioramento. Troveremo a Kathmandu un interessante libretto sul lavoro svolto da un gruppo di Berlino, che si propone di restaurare e conservare le case tradizionali rimaste a Lhasa – meno di un centinaio. Troverò lì la conferma di alcuni miei sospetti sul tentativo di cancellare visivamente il passato, e una parola di speranza per l’avvenire di quel poco che resta: purtroppo hanno distrutto bellissime case tradizionali sino al 1998.

Lunedì 24
Altra notte difficile, lunga e poco piacevole. Prima di andare a Ganden passiamo dalla TIST per concordare il programma. Nonostante i lunghi mesi di accordi, l’itinerario è ancora largamente da definire. Troviamo Dawa, gentile e efficace, che ci dà un grande aiuto, ma guai se non avessimo accuratamente preparato carte, liste dei luoghi da visitare, fotocopie di mappe. Speriamo tutto si aggiusti in giornata. Oltretutto oggi è una importante festa religiosa e le strade sono affollate di Tibetani che si avviano al Potala e nei monasteri nei vestiti tradizionali e ruotando abilmente il mulinello delle preghiere, per festeggiare la nascita e il risveglio del Buddha, un forte  contrasto con il mondo e la popolazione cinese. E’veramente   curioso vedere il traffico di Lhasa che si ferma per consentire a un pellegrino di attraversare la strada effettuando le prostrazioni. Ci avviamo verso il paradiso di Ganden, e la giornata un po’ scura si apre: il Tibet si manifesta nel suo splendore, una natura abbagliante, maestosa, pacifica. Saliamo rapidamente i tornanti verso il villaggio sacro, ed è una sorpresa notevole. In cinque anni l’ottanta per cento delle rovine è scomparso, sostituito da nuovi edifici ricostruiti con cura, con fede. Grandi monasteri e quartieri per i monaci dalle alte mura di pietra, dalla carpenteria tradizionale sostituiscono i muri sbrecciati, il tempio del nord e dell’ovest (o per lo meno di due punti cardinali) sono al loro posto. Solo alcuni spuntoni poco evidenti testimoniano il disastro di qualche anno fa. Comperiamo qualche bandiera e ci avviamo con prudenza. Il fiato è poco e siamo a 4.700 metri. Lungo la kora, bellissima, piena di pellegrini,  si aprono le grandi vallate, sullo sfondo il Kyi-chu, con sfumature di tanti colori e un bel cielo con poche nuvole. L’eremitaggio di Tsongkapa è aperto, non lo avevo visto la volta scorsa, e il monaco è cordiale. Una piccola fetta della storia del Tibet, la nascita dell’ordine Gelugpa, e poi della dinastia dei Dalai Lama. L’abate di Ganden era il personaggio più autorevole per il sapere religioso, e la biblioteca (che non visitiamo questa volta) imponente. Terminata la kora visitiamo il monastero, la grande sala delle adunanze è pieno di monaci oranti e di piccoli monaci poco disciplinati che preparano delle torte a base  conica  e forma ogivale impastate con orzo, formaggio di “di” (la femmina dello yak) e di burro, che saranno offerte ai pellegrini: le torma decorate, e di forma più allungata, spesso a più piani, sono offerte alle divinità.
Nella semioscurità  della sala si intravede l’altare principale con la grande statua di Tsonkapa e dei suoi discepoli,  imponente nel fumo di incenso e nel rimbombo delle preghiere.  Nel tempio rosso, sulla sinistra del sentiero, sopra alle famose cucine scure e fumanti con i loro grandi pentoloni dove il tè si prepara in quantità industriali,  percorriamo i gradini sbrecciati e le cappelle: al centro dell’attenzione, al piano superiore, il grande stupa di Tsongkapa e la cappella dei protettori.  Sul lato sinistro della prima cappella c’è un bellissimo stupa di bronzo alto circa un metro. E’, con il grande stupa, che conteneva le reliquie del Riformatore, e ricostruito dopo le devastazioni , tra gli oggetti più sacri di Ganden. Il ritorno è pacifico, tra i paesi in festa, con le tende bianche e blu da picnic disseminate dappertutto, ma in ufficio alla TIST ci sono una nuova tornata di problemi da risolvere. Sapremo solo domattina se ci sono i  permessi  e se si potrà iniziare il viaggio per il Lhamo Latso e poi verso Guge e il Kailash.

Martedì 25
Con il mal di testa (per il sole o per l’altezza) si parte per Tsetang: tempo bello e addio a Lhasa senza troppi rimpianti. Passiamo dal Kyi-chu allo Tsangpo  ignorando il Drolma Lhakang per nostra disattenzione e perché la guida, 23 anni e poca esperienza, sonnecchia. Vogliamo vedere i monasteri Sakya sulla riva destra del fiume poco conosciuti ma interessanti secondo i nostri guru.  Arrivati quasi a Tsetang diciamo alla nostra guida che siamo troppo avanti (ma gli avevamo dato la cartina del Dowman, che evidentemente non sa leggere, con i nomi dei monasteri sottolineati in giallo) e dobbiamo tornare indietro. Non conosce i posti e dopo umilianti domande di aiuto a ragazzine e vecchiette, troviamo finalmente il Dakpo Dratsang (Dowman pag. 149) a cinque km dalla strada principale verso sud, in una vallata coltivata e piena di case, popolata e allegra. In fondo al villaggio è il monastero, trasformato dai cinesi in deposito durante gli anni peggiori. E’ in un bel cortile quadrato e un immenso albero di noce ombreggia una trentina di carpentieri al lavoro. Da un mese e mezzo sono iniziati grandi lavori di restauro, e il cortile è uno splendido cantiere. Ci guida un amabile abate, anziano e gentilissimo, che, visto l’interesse ci spiega ovunque è possibile. Il dukhang contiene pitture che ci sembrano belle, anche se possono essere state restaurate. Nella parte interna, dietro al dukhang, un bell’altare con alcune belle pitture  apparentemente antiche, e i famosi ritratti di Marpa e Milarepa. Proviamo a fotografare, anche se non ho ancora la padronanza del flash. Molto interessante il lungo corridoio a sinistra del dukhang (era il gomkhang?) invaso dalle travi e dalle macerie. Alle pareti ci sono pitture belle ma molto rovinate.  Devono essere le pitture originali del tempio (1400) di cui parla il Dowman. La cucina è un locale eccezionalmente bello e ben tenuto, in cui ci invita l’abate, offrendoci tè e pane dolce, che accettiamo con molto piacere (sono le due).
Lasciamo il Dakpo Dratsang con molta soddisfazione per le cose viste e per l’accoglienza, e per questa ricostruzione che speriamo rispetti anche le pitture.
Proseguiamo per Chitesho, dove si trova l’altro monastero Sakya utilizzato come granaio, il Dungpu Chokor (Dowman pag. 156).  Il custode è cortese, ma è rimasto poco da vedere di antico. Le pitture murali sono comunque interessanti e facciamo qualche foto.  Nel Dukhang l’altare maggiore è una grande statua di Vairocana con davanti una antica e venerata immagine di Drolma (piccola) coperta di stoffe preziose che lasciano vedere poco. Al piano superiore un’altra sorpresa: la camera del 14° Dalai Lama è in ricostruzione, e il porticato è ingombro di artisti che modellano statue in argilla di media grandezza, alcune già finite e di buona fattura. Visitiamo una o due cappelle interessanti ma nulla più, e quelle che ci dicono essere le statue che erano nelle stanze del Dalai Lama, che non mi paiono un granché.
L’ultima tappa è Dranang, un monastero che Tucci descrive con meraviglia: la cappella dell’altare dietro al  Dukhang è imponente e silenziosa, con le grandi orbite vuote delle grandi statue antiche sparite o distrutte. Le pitture sono splendide ma molto rovinate, l’acqua è entrata e l’incuria ha fatto il resto. Paghiamo per qualche fotografia, sperando che documentino quanto tempo è passato da quelle fatte da Mele. Il luogo nell’insieme è triste, le tracce di bellezza rendono maggiore il rimpianto per lo splendore iniziale. Anche nel grande corridoio (kora) largo e alto che contorna l’altare le pitture sono state restaurate anni fa e già manifestano un ulteriore degrado. 
Pernottiamo a Tsetang, la città sembra già più ricca ed elegante rispetto a qualche anno fa. Un enorme serbatoio in metallo lucido campeggia in bella vista 50 metri sopra ai famosi campi che ricordano il primo orzo e la nascita del popolo tibetano.

Mercoledì 26
Notte ancora un po’ problematica e poi partenza per un periodo di campeggio. La sera prima  un gruppo di turisti, tra cui un gruppo di romani, affollavano l’albergo. Noi ci dirigiamo verso il Keru Lhakang, un monastero con una storia antica, al centro della valle di Yon.  L’abate di Cholung ci confermerà che la presenza di un ufficio amministrativo cinese lo ha salvato dalla distruzione. Il ponte sul Bramaputra abbrevia considerevolmente i tempi. Al centro di una zona agricola ai margini del paese, stentiamo a riconoscerlo perché cerchiamo un edificio a due piani e ne vediamo uno solo. Ci spiegano che un piano è stato “tagliato” e ora attendono i finanziamenti per ricostruirlo. L’origine è antichissima (addirittura attribuita a Trisong Detsen) ma probabilmente è databile dall’11° secolo. E’ al centro di un cortile rettangolare circondato da un muro, e consiste in un dukhang e in un lhakang. Pitture che ci sembrano molto belle ornano le pareti, e tentiamo una documentazione abbondante. Bellissimo in particolare il Guru Rimpoche della parete sinistra. L’altare ospita una bella statua del Buddha, forse di artista Kotanese, molto serena alto circa quattro metri, con gli otto Bodhisattva e i Protettori. Ci dicono che le statue sono in parte rifatte. Anche qui documentiamo perché l’insieme è armonioso e austeramente impressionante. Siamo accompagnati da un cortesissimo monaco che, visto l’interesse, ci mostra le cose con piacere.
Una bellissima sorpresa è la piccola cappella a destra dell’edificio principale, che ospita un famoso chorten bianco Karchung  contenente le reliquie di Atisa. Probabilmente sostituisce l’originale che Dowman dice sparito. Alle pareti tre bellissimi ritratti che i monaci ci aiutano a fotografare, spostando addirittura le offerte e il pannello cui sono appoggiate. Un’altra cappella a sinistra di quella di Atisa, appoggiate al muro principale contiene statue nuove dei protettori.  Dopo il tè paghiamo il nostro obolo per le fotografie, e per l’offerta al monastero, che consideriamo una scoperta molto positiva.
Proseguiamo per la valle di Woka, tappa verso il Lhamo Latso. Costeggiamo lo Tsangpo, che inizia a mostrare qualche rapida  lungo una riva sabbiosa e caldissima. Il fiume si stringe, appare la centrale elettrica di Woka, varchiamo il cancello scendendo nel villaggio,  dove troviamo una minestra per il pranzo. Aspettiamo il camion d’appoggio con le tende, e aspetteremo fino alle sette di sera.  Nell’attesa entriamo nella scuola preparatoria ed elementare, parlando con bambini e maestri. Molto gentili, ci fanno sedere e si chiacchiera. Alle sei arriveranno i maestri di musica e la scolaresca inscena le prove per una danza folcloristico-popolare-propagandistica per la festa dell’estate. I bambini studiano sei ore al giorno, i più meritevoli vanno a studiare a Pechino, e dopo troveranno più facilmente lavoro. Ore di 45 minuti e insegnanti piuttosto severi. Un’occhiata ai quaderni di matematica impressiona per il buon livello in tenera età.  Alla ricerca del camion, ci inoltriamo nella valle, salendo sino a una serie di cantieri presidiati dai militari: stanno facendo imponenti lavori e altre dighe con altre centrali. Alla fine il camion arriva, e alle otto (troppo tardi) arriviamo a Woka Dzong a circa 3000 metri. Oltre il forte, imponente e sinistro nel sole morente, la valle è verde e ricca di acqua e di greggi. Il camion si impantana e resterà a mollo per due ore. I meravigliosi Nepalesi piantano le tende e ci preparano una cena che non gustiamo per la stanchezza. Dormiamo in riva al fiume, ci sono stelle favolose e la luna quasi piena.
Queste valli del Tibet sono una più bella dell’altra.

Giovedì 27
Prima notte in tenda (con il lusso della tenda individuale) e solite difficoltà a gestire il sacco a pelo. Ma al mattino il sole cancella la pena, e ci prepariamo alle due visite programmate, Cholung e Dzingi.  La strada per Cholung è asperrima, e la toyota corre qualche rischio, anche se la distanza è poca. Cholung è arroccato a mezza costa e domina la valle di Woka, un chorten bianco segnala il monastero da una terrazza che si apre sulla valle. Un magnifico molosso tibetano appena ci vede cerca furiosamente di spezzare la corda troppo sottile con cui è legato a un albero: ha un collare di pelo lungo trenta centimetri, e sembra deciso a tutto. E’ in compagnia di un esemplare più piccolo che lo imita abbaiando e ringhiando ma con meno convinzione. Ci accoglie un monaco un po’ frettoloso, e visitiamo il bel cortile lastricato di pietra in cui l’abate fa scuola ai pellegrini, il piccolo locale per la preghiera del grande mulino girevole, la sala delle adunanze tutta dedicata a Tsongkapa che qui ha insegnato e meditato.  Il monastero è stato ricostruito nel 1982, il primo in Tibet, con l’interessamento del Panchen Lama, e pitture e statue sono nuove. Ci sono molte reliquie di Tsongkapa, il mandala in pietra, la pietra con l’impronta delle dita, il corno dello yak cavalcato dal maestro, la sala delle prostrazioni a lui dedicata, con il pavimento di legno. Compare l’abate, un anziano signore gentile e sorridente, che comincia a rispiegare le cose dette dal monaco, e che a poco a poco stabilisce con noi un meraviglioso rapporto con l’aiuto della guida. Ci invita nelle sue stanze, ci offre tè, zucchero in pezzi, arance: ci racconta qualcosa di sé, ha vissuto qui dal 1982 e vorrebbe vedere il Dalai Lama prima di morire. Ha la passione degli animali, nei suoi quartieri tiene una scimmia  che vediamo accovacciata su un trespolo, un agnellino, degli uccelli. E’ dolce e benedicente, e promette preghiere per il nostro viaggio. Ci benedice con alcuni tsa tsa molto belli che i suoi artigiani ricavano da uno stampo antico, di fattura finissima, che riproduce Tsongkapa.  Diamo un’occhiata alla valle dalla terrazza, e ci fanno vedere un cavallo con due corna o dita unghiate che spuntano da dietro le orecchie: questa anomalia gli vale un trattamento di favore. Lasciamo Cholung con un senso di pace, e ci inoltriamo nella vallata di fronte, dove dopo una mezz’ora di strada abbastanza decente ci troviamo a Dzinchi, un monastero triste, in parte distrutto, in parte adibito a sala di riunione del popolo. Ci sono tracce di belle pitture alle pareti, ma sono quasi cancellate. Ci dicono che mancano i soldi per il restauro, alcune parti sono state restaurate così male che l’edificio è crollato durante le piogge. Nell’insieme una visita deludente, non per i monaci, gentili, ma per l’atmosfera scoraggiata. Ritorniamo verso lo Tsangpo, viaggiando tutto il pomeriggio, cambiamo riva e scendendo il fiume a sud-est. Dobbiamo aggirare una gola inaccessibile del Bramaputra, che si addentra nella valle con rapide e strette curve, lo ritroveremo a Gyatsa, dopo aver passato il Potrang-la, alto e interminabile. Ma prima viaggiamo lungo un interessante canyon di sabbia e rocce che vedremo meglio al ritorno. Ci arrampichiamo sul passo, una lunghissima cavalcata che porta in alto a 5000 metri. Dall’altra parte si scende tra grandi macchie di rododendri in fiore, il grande rododendro Himalayano bianco, rosso, rosa. Dopo un interminabile discesa ritroviamo il fiume, che dobbiamo ancora attraversare.  Ecco un grande ponte di ferro, e siamo sull’altra riva. Ci accampiamo che è quasi buio.  Domani dovremmo arrivare a Chokorgyel, prima tappa verso il Lhamo Latso.

Venerdì 28
Giornata di traferimento. Siamo nel Dakpo, al confine del Kongpo, (ne vedremo i costumi a Chokorgye), e questo Tibet è molto diverso, a est e a sud la natura è ricca di alberi e di vallate strette e molto più verdi. Costeggiamo il fiume che alterna rapide a lente superfici a specchio, e passiamo Gyatsa Shan, un bel villaggio immerso in una vallata ricchissima d’acqua e famoso per i noci giganteschi e per gli albicocchi. Cerco invano di fotografare quello che sembra un minivarano, che scappa tra le pietre. Relativamente vicino c’è un eremitaggio di Milarepa, il Daghla Gampo, (Chan pag. 220) ma lo leggeremo solo dopo e comunque non avremmo avuto il tempo. La strada sale lungo valli strette e scoscese, superiamo molti camion carichi di legna e di pellegrini. Domani è la festa dell’estate, e molti si dirigono verso Chokorgye dove ci saranno danze e feste. Sono una folla cordiale e multicolore, curiosa e gentile, donne, uomini, bimbetti, a piedi a cavallo, in camion.  Facciamo sosta in un villaggio addossato a una strettoia della valle, coltivato e abitato. C’è un curioso mulino da preghiera ad acqua, con una grande asta augurale, come al solito chiuso da tutti i lati, con le finestrelle sprangate.  Sopra al villaggio c’è un monastero sede di un lama famoso, ora morto,di cui sono in attesa di individuare la reincarnazione. Prendo il binocolo e lo vedo, arroccato a trecento metri sopra il villaggio, i muri bene imbiancati e il tetto perfettamente tenuto indicano un lama ricco. Più sopra la pietra sacra, una straordinaria struttura naturale, alta circa 12 metri, un lungo stelo e una roccia a forma di fungo, incombente sulla valle. La natura è bellissima, la strada tremenda, i sobbalzi quasi pericolosi. Più in alto inizia la valle di Metoktang (Chan pag. 220) famosa per i fiori e per le piante medicinali. Con un cielo tempestoso arriviamo a Chokorgye, uno dei luoghi santi del Tibet. E’ una larga piana dove confluiscono tre vallate e tre fiumi, dominata dalle imponenti rovine del monastero di Chokorgye, costruito nel 1509 dal secondo Dalai Lama che era di qui, con alte mura e quattro porte, di forma triangolare, con uno dei vertici tagliato. Nel perimetro delle mura stavano grandi edifici, templi e monasteri ancora parzialmente in piedi nonostante la dinamite dei cinesi. Tutto il legno è stato asportato pezzo per pezzo. Roberto cerca le tracce di pittura nel du khang e si fa mordere dal cane di guardia che però non infierisce:  ci rimette solo i pantaloni.  La valle è piena di tende, bianche e azzurre o nere dei nomadi, o semplici teli per un riparo contro la pioggia che infierirà a tratti per tre giorni. Mentre si monta il campo, curiosiamo nei dintorni. Visitiamo il monastero, recente, inserito tra le rovine. (Le autorità negano il permesso di ricostruire in questo luogo).
 Il grande Shingye Melong è in realtà una grande pietra quasi circolare con funzioni magico-divinatorie. Viene tenuta alzata o coricata a seconda dell’abbondanza delle pioggie. E’ alzata e ne capiremo la ragione: avremo tre giorni piuttosto  umidi, specie la notte. Altre rovine costellano la  montagna a sud del monastero: la casa del 2° Dalai Lama, e sul fianco della montagna di fronte, un monastero in rovina ma ancora imponente, a fasce di colore rosso bianco e blu. Era sede di una comunità monastica che univa gli ordini Nyngma, Kahgyu e Sakya.

Sabato 29
I cavalli che avevamo chiesto non ci sono, e Roberto non sta bene. Il tempo è mediocre, ma io voglio egualmente tentare di raggiungere il Lhamo Latso, una delle mie mete prioritarie. E’ il lago delle visioni, l’oracolo che aiuta a individuare le reincarnazioni dei Dalai Lama. Mi accompagnano la guida, e i due autisti, secondo la guida ci vogliono due ore (ma non ha un’idea di questo luogo, come degli altri d’altronde). Il sentiero pullula di pellegrini, sono centinaia e vanno in genere a un passo mostruoso. Usciamo da Chokorgye, voltiamo in una valle laterale, e dopo un’ora circa imbocchiamo una lunghissima valle a nord: in fondo è chiusa da un’alta cresta rocciosa dalla cui cima si guarda la vallata del lago, trecento metri più in basso. La strada sembra interminabile, e diverse volte penso di rinunciare: sono pesante e senza allenamento, e devo fermarmi spessissimo per recuperare il fiato e calmare il cuore. Ci fermiamo spesso con i pellegrini che chiacchierano e sono estremamente gentili. E’ un incoraggiamento continuo, e ogni volta vado un po’ più avanti. Secondo il Dowman la cresta è a 5.300 metri e il dislivello piuttosto robusto. Seguo una coppia di tibetani più lenta, e dopo una serie di balze che danno l’illusione di vedere la meta vicina, ecco finalmente il ripido muro di rocce che chiude la valle. Più vicino si vede il sentiero e il lento avvilupparsi dei pellegrini e sulla cresta le centinaia di bandiere e di kata che  sventolano, e i rami coperti di preghiere. Con un ultimo sforzo, e fermandomi ogni pochi passi, mi inerpico per il sentiero ripidissimo tra le rocce e sono finalmente in cima, tra le grandi lastre di pietra che separano le due vallate. E’ una grande emozione perché non pensavo di farcela, e perché l’atmosfera è molto speciale. Immaginate i denti di un gigantesco pettine, lungo alcune centinaia di metri, fatto di grandi lastre di granito: separano le due vallate, e quasi a cavalcioni dei massi si apre la vista della vallata sottostante, con il lago al centro, solitario e azzurro, che riflette le nuvole e la solitudine silenziosa della vallata totalmente vuota. Al centro del pettine uno spiazzo e un muro di bianche kata e di stoffe da preghiera. E’ il trono del Dalai Lama, il luogo di meditazione meta obbligata dei regnanti una volta almeno nella vita, che qui venivano a interrogare il destino, e dei monaci in cerca di indizi per assicurare la continuità del lignaggio più importante del Tibet.
I pellegrini sono affacciati a decine sui massi della cresta, in silenzio, con serietà e devozione.  La via del ritorno è più facile, anche se molto lunga, e funestata da un violento acquazzone. Mi fermo dopo poco a fotografare una curiosa pianta medicinale a cui molti  tibetani, inclusi i miei compagni di viaggio, danno una caccia spietata. E’ vegetale d’estate e vermiforme d’inverno, ed è molto ricercata per le virtù medicinali. Si chiama Yatsa gambu o “winter worm”.  Arriviamo a Chokorgye a pomeriggio inoltrato, la gita è durata  sette ore e passa, più le soste. Pioverà tutta la notte, e sarà una notte pessima nonostante la stanchezza.

Domanica 30
Piove a dirotto e ce ne andiamo, anche perché le promesse “cham dances”, per cui ci volevamo fermare anche oggi, non ci saranno. Un lama importante ha deciso di andare al Lhamo Latso questa mattina, e le cerimonie sono state spostate di un giorno. Dato che piove non ha molta importanza, ma noi volevamo vedere le danze e poi partire. Il lama ci sembra alquanto un seccatore, (e si bagnerà parecchio se sale questa mattina). Decidiamo di partire in fretta smontando il campo e puntiamo a raggiungere il Bramaputra a Gyatsa Chu, piantando il campo allo stesso punto dell’andata. Dato che piove cambiamo programma e optiamo per la guest House di Gyatsa Xian (Chan pag.220), affrontando il solito squallore delle guest house sino-tibetane. Gyatsa è dotata di una strada principale asfaltata (800 metri) che attraversa il paese, su cui si affacciano le solite costruzioni ufficiali cinesi, la casa del popolo, edifici militari con  i grandi specchi parabolici in fondo al paese, alcune case tibetane in cattive condizioni,  botteghe e locande cinesi e tibetane. Poche stradine perpendicolari completano il villaggio, mentre il monastero e il quartiere dei monaci occupa un’ampia zona  a ovest. Troviamo una guest house accettabile dati gli standard locali, e ci installiamo. Dopo, esploriamo il villaggio, un miscuglio di Cina e di Tibet ma in cui la Cina prende il sopravvento sul piano commerciale e istituzionale. Siamo oggetto di una notevole, e comprensibile curiosità. Un grande cortile ospita la scuola media Tibet – Cina e vediamo frotte di scolari in uniforme. Per la strada si alternano minigonne e costumi tibetani, le uniche belle case della high street sono, pur nella trascurata vetustà, alcune grandi case tibetane a un piano, con le grandi finestre e la classica forma rastremata. C’è un bel quartiere tibetano in fondo al paese, attorno al monastero, con case racchiuse dai cortili, porte decorate da immagini in pietra di Manjusri, e iscrizioni tibetane. Troviamo la strada del monastero, all’esterno c’è l’edificio delle cucine, attorno a cui vediamo parecchi monaci. Ci invitano a entrare, è in corso una funzione cui partecipano una trentina di monaci. Il du khang è bello, anche se di recente fattura, o restauro, le pitture alla pareti sono notevoli. Strati di tangka coprono le pareti in alto. E’ il monastero di Dakpo Trasang (stesso nome di quello vicino a Gonkar). Secondo il Chan un centro Sharmapa, sede della investitura del 6° Sharmapa nel 1589 e sfuggito quasi intatto alla rivoluzione culturale.  Le statue sono coperte di kata, ai muri sono allineate centinaia di lampade accese, e file interminabili di piccole torma. Non osiamo disturbare più di tanto la cerimonia, perché vediamo che la nostra entrata e relativo giro del dukhang è fonte di distrazione. Un vecchi o monaco legge scritture, al centro si canta e suonano drilbu e cimbali. C’è un forte contrasto tra questo Tibet dentro al monastero e quanto avviene fuori, con il mondo cinese e tibetano che si incontrano. Probabilmente non vincerà nessuno.

Lunedì 31
Tappa di trasferimento a Tsetang. Il tempo pare essersi rimesso a un decente cielo azzurro, con piccole nuvole bianche molto alte. Lasciamo questa guest-house non inutile per quanto abbiamo potuto osservare, e soprattutto per il sonno ristoratore, il primo dopo parecchi giorni. Nel cortile un camion imbarca un carico di passeggeri e c’è il solito frastuono allegro. Ripercorriamo il terreno percorso verso il Potrang la. Ha piovuto, e sul versante nord-est i rododendri sono un po’ sciupati, peccato per le fotografie. Al di là del passo il clima cambia: siamo tornati decisamente al Tibet più desertico, anche se si vedono ampie zone coltivate. La natura è strana, al di là del passo, scesi dalla cima immensa e ventosa c’è la lunghissima valle di Lhagyari, appartenuta alla dinastia imperiale di Songtsen Gampo. Un lungo canyon dai fianchi rossicci ed erosi racchiude verdi campi coltivati, con uno strano effetto di colori sovrapposti. Rovine e villaggi arrampicati sull’orlo del canyon rendono il paesaggio lunare. A Lhagyari (Chusum Xian), in cerca di carburante, scopriamo un interessante villaggio nascosto dietro un contrafforte sabbioso. Domina dall’alto il villaggio un tempietto dedicato a una divinità protettrice. Al di sopra, su un alto contrafforte, le rovine aperte come quinte teatrali di un castello appartenuto a un principe locale (non ci sanno dire il periodo, ma le finestre della lunghissima facciata sono alte e strette di uno stile tibetano che io non ricordo di avere visto, ma che ritroverò in alcune finestre del monastero di Rong. Questo essendo del 1500, anche le rovine potrebbero essere dello stesso periodo). Su un colle gemello, le rovine più antiche di un antico convento. Due grandi noci quasi morti rendono il luogo spettrale. Dopo Lhagyar,i a Lishan, poco prima di Dungkar chu (Chan pag. 373) c’è una importante necropoli del 700A.D., secondo il Chan è importante come Chongye, ma  non ci fermiamo a cercarla per ragioni di tempo. Proseguiamo verso lo Tsangpo, e , arrivati in vista del fiume, cerchiamo il monastero di Chagar, sotto alle rovine di Langkor Dzong, di fronte a Rong. E’ una piacevole sorpresa, un bel monastero bianco e zafferano, dalla struttura superba e massiccia, piuttosto ben tenuto.
 Pare si sia salvato per l’utilizzo governativo durante la rivoluzione culturale. (Dowman 263 Chan 641) Facciata imponente, accesso da ripide scale dai gradini in pietra, entrata del du khang con pitture restaurate ma belle, una grande iscrizione in tibetano. Molto bella la ruota della vita. La sala è ampia, le pitture alle pareti, che documentiamo, molto belle: secondo Dowman un pittore ha restaurato alcune pitture nel 1986. Le statue, non brutte ma non eccezionali sono dedicate al fondatore, il 3° Dalai Lama che fece costruire il tempio nel 16° secolo, e a Tsongkapa. Dietro all’altare, per alcuni gradini, si accede a una cappella in pessimo stato, di forma rettangolare molto allungata, le cui pareti sono coperte di pitture belle ma in pessimo stato (il muro gonfiato dall’acqua sta distruggendo l’immagine principale di una divinità che tiene un serpente nella mano sinistra, immagine ripetuta in piccolo su tutta la parete. (Documentata) Molto bella, sporgente dal tetto, una grondaia zoomorfa lignea che pare coeva. Ci ha accompagnato  il custode sordo, il monastero è abitato da otto monaci che ora sono nelle case dei contadini per alcune funzioni sacre. Dopo Chagar, voliamo verso Tsetang, dove ci aspetta il comodo albergo e la gestione del problema “guida” che mi riporta ai problemi manageriali in azienda.  Telefonata a casa, e ci prepariamo a dormire al suono del “silenzio” che viene dalla vicina caserma, e che è identico al nostro.

Martedì 1 Giugno
Lasciamo Tsetang e il Tibet centrale per cominciare il lungo viaggio a ovest. Con Tsetang il clima e la vegetazione cambiano violentemente. Lasciamo nuvole e pioggia e siamo nella grande valle assolata dello Tsangpo, immensa, scintillante nel sole, con grandi macchie di alberi, che stanno aumentando di anno in anno, e  montagne che si sfanno nelle dune di sabbia lungo il fiume e oltre.  Ecco Samye e l’accesso al traghetto, che sta diventando una costruzione imponente. All’aeroporto cambiamo guida (con un abile colpo di mano e una telefonata strategica alla TIST). Lasciamo Lhakpa al suo destino, e proseguiamo con Jigme, una decisione che si verificherà eccellente. Su per il Kamba la, in una splendida giornata serena il lago Yamdrok è particolarmente invitante. Scendiamo il passo e siamo nello Tsang. Ogni tanto particolari crudeli ricordano che a poco a poco il vecchio Tibet scompare. Un piroscafo sul lago, dei battelli a riva, una centrale elettrica. Cerchiamo con gli occhi il monastero di Samding, e pensiamo di individuarlo a ovest del villaggio di Nangkatse, funestato da un enorme edificio governativo, immenso cheletro di cemento che probabilmente resterà tale per sempre. Ecco il Karo la e il suo imponente ghiacciaio, da cui scende un vento gelato dai 5000 metri del passo. Qui alcuni nomadi aspettano i turisti con gli yak per una improbabile cavalcata che ricorda i cammelli alle piramidi di Giza. Si vendono anche piccoli cristalli di quarzo come a Chongye.
Una lunghissima vallata porta a Gyantse, la principale città del Tsang: lungo la strada stanno sventrando una montagna ed evacuando tutti gli abitanti per far posto a un grande invaso idrico per un progetto idroelettrico che cambierà la faccia della regione e forse influirà sul clima. Penso alle divinità locali che si irritano anche solo per uno spostamento di sassi, e mi domando se i cinesi avranno fatto le adeguate cerimonie propiziatorie. Il grande invaso è quasi pronto, gli operai si aggrappano ai fianchi della montagna come insetti frenetici. Scompariranno case, fattorie, campi, strappati alle coste rosse e ai canyon sabbiosi che rendono il paesaggio fantastico e spettrale. Sarà un paese diverso. Arriviamo a Gyantse e alloggiamo al solito Gyantse Hotel, grande, cinese, scomodo e purtroppo anche con un pessimo cuoco. Siamo molto stanchi e speriamo che quota 4.000 non influisca troppo sul sonno.

Mercoledì 2
Buona nottata e risveglio all’alba (con questa storia dell’ora imperiale di Pechino, ci si alza alle 5) Oggi espongono la grande tangka di Sakyamuni conservata al Palkor Chode, una tradizione che risale al secondo principe di Gyantse  Rabtan Kensang Phag nel 1419.  Entriamo nella cittadella santa di Gyantse, una collina concava circondata da mura  in cui le dissennate distruzioni cinesi hanno lasciato in piedi soltanto il grande stupa a nove piani con le sue 108 cappelle dipinte,  il tempio del Palkor Chode, e, dietro, il labrang, la sede dell’abate. In alto sulla collina domina il grande muro (25mtx20?) da cui per alcune ore, una volta l’anno, è offerta all’adorazione dei pellegrini la grande tangka ricamata. Oggi per l’appunto la espongono, dopo la festa dell’illuminazione del Buddha, la luna piena di maggio (europeo). Centinaia di pellegrini affluiscono nella cittadella, e si incamminano lungo il sentiero della kora che passa davanti al Kumbum, sfila dietro al Palkor Chode, fa una deviazione per il labrang, e riparte sul sentiero per passare sotto al grande muro e scendere poi nuovamente verso l’ingresso del Palkor Chode. Lungo il percorso visitiamo il labrang dell’abate, un edificio segnato dall’usura ma egualmente oggetto di venerazione. All’interno pitture rifatte ma con tracce di antica nobiltà. Alcune correzioni sono brutali, ma egualmente questa serie di pitture, che racconta  episodi della vita del Buddha, sono estremamente  interessanti. Nella cappella principale, dietro alla sala delle adunanze, decorazioni in bianco e nero, anche queste di qualità non eccelsa. I pellegrini entrano ed escono in processione infinita, portando offerte d’olio (importato dall’India, il burro di “di” è diventato molto caro per la scarsità) Arriviamo alla grande Tangka mentre il sole comincia a illuminare con riflessi d’oro il Kumbum, e il cubo rosso del Palkor Chode. Dinanzi alla  Tangka, smisurata, una fila di monaci vestiti di rosso intona musiche di trombe e tamburi, mentre i pellegrini sfilano offrendo candide sciarpe. Sullo sfondo il profilo del castello, alto sulla collina di fronte alla città vecchia. Dopo la visita del tempio, vedremo una grande folla adunarsi eccitata sulla spianata davanti alla porta: hanno nuovamente arrotolato la grande Tangka (è stata esposta dalle 7 alle 11) e un manipolo di pellegrini la riporta nel tempio, preceduta dai monaci oranti.  La folla impazzisce, molti cercano di toccare e di baciare la tangka: finalmente tutto nuovamente si acquieta e la folla riprende a sfilare tranquillamente in un clima di festa. Dopo qualche fotografia all’evento, entriamo a visitare questo, che è uno dei più famosi templi del Tibet, e racchiude tesori d’arte antichi come il tempio stesso, fondato dai signori di Gyantse nal 1400. Nel dukang  tentiamo di fotografare alcuni dipinti nelle varie cappelle, spettacolari con le grandi statue della pentade dei Budda cosmici (Dorje Ying  Chapel) o dei tre Budda del tempo passato, presente e futuro, con le grandi aureole scolpite, ciascuna un profluvio di piccoli capolavori attorno alle serene teste del Buddha. (Inner Chapel o Tsangkhang) Le cappelle sono piene di pellegrini, di candele, di luci oscillanti dai calici offerti dai fedeli. Altissime torme colorate di forma triangolare stanno davanti alle statue, enormi scaffali contengono centinaia di preziosi volumi sacri ed antichi, con grandi copertine di legno dai bordi scolpiti e dorati. Nella cappella reale (Chogyal Lhakhang) fotografo le statue dei tre re mitici, Songtsen Gampo, Trisong Detseng, e Ralpachen, e belle pitture di sapore indiano. Al piano superiore la cappella dedicata al lignaggio Sakya, con il grande mandala di bronzo, e belle statue degli 84 Mahasiddha alle pareti, e quella degli Arhats nelle curiose caverne dal sapore naturalistico. Ancora più in alto, nel halyekhang una serie di quindici grandi mandala che illustrano le dottrine esoteriche del Buddismo tantrico. Dovremo ricorrere alle guide a alle fotografie (speriamo) per orizzontarci nei ricordi. La mescolanza con i pellegrini è continua, la maggior parte di loro sorride, saluta, non si mostra nemmeno infastidita da questi rompiscatole che pretendono di far passare l’arte davanti alla fede.
Nel pomeriggio, nel sole accecante, ci avviamo verso il castello da cui si gode una stupenda vista sulla città vecchia, ma anche su una invadente città cinese che si allarga, si addentra, scaccia e sostituisce i quartieri tibetani. Un grande cementificio lascia cadere i suoi fumi sulla bella piana di Gyantse, e un assurdo laghetto con pagoda costeggia la base del castello. Questi è un immenso insieme di edifici, di cui molti chiusi e destinati al restauro o al consolidamento dopo i danni recati dalle solite distruzioni. Saliamo nel vento sino alla piccola cappella della vetta, la parte superiore è chiusa, ma alcune stanze sono accessibili: scopriamo una immensa colonna di legno di due metri e mezzo, sormontata da un capitello, certo parte di un antico ambiente, forse una cappella. Sopra al tempio in restauro, dai cui muri le pitture sono quasi scomparse, individuiamo cunicoli facenti parte di una piccola costruzione. In fondo all’ultima stanzetta, pitture in bianco e nero di divinità terrifiche. E’ forse quanto resta del gomkhang? Cerco di fare una fotografia.  Nel tempio, poche pitture quasi irriconoscibili e nel corridoio (una kora chiusa da un muro) alcune prove di restauro. Nell’edificio subito dopo l’ingresso, un ingenuo, orrendo museo, che raccoglie costumi e armi. Un paio di scenografie, ingenuo e un po’ ridicolo strumento di propaganda, ritraggono biechi imperialisti inglesi e crudeli amministratori della giustizia medioevale che frustano popolani dall’aria sofferente.
Il vento è ormai l’unico padrone di questo maestoso complesso, quasi in abbandono. Qui si avventarono gli inglesi di Younghusband: se i tibetani fossero stati meglio armati e meno fiduciosi negli amuleti, questa rocca non sarebbe stata conquistata.

Giovedì 3
Lasciamo Gyantse alle nove, e ci avviamo verso Shigatse. Dopo un’ora di bella strada alberata e di ricche case nella grande piana di Gyantse, ecco la svolta a sinistra per il monastero di Shalu, uno dei più importanti del Tibet, che desideriamo rivedere. La strada è accidentata: arriviamo alla porta del monastero, ingombra di camion e di fuoristrada dei turisti che ingombrano il piccolo piazzale. Il monastero appare trascurato, un’impressione che sarà confermata dalla visita. Ritrovo le belle pitture del corridoio all’entrata, che è definito come gomkhang, ma devono avere modificato il layout perché di fronte il passaggio è chiuso da un muro, come pure il passaggio sulla sinistra. Le pitture sono sempre molto belle, ma il monastero appare in grave stato di abbandono. Mi stupisco perché so che ci sono molti sforzi occidentali e raccolte di fondi per restaurare questo antico tempio fondato nel 1040 e sede del grande Buton Rimpoche nel 13° secolo. Ci sono pitture del 14° secolo, e qui era la collezione del Canone Buddista poi sfortunatamente dispersa. Sulla destra del corridoio all’entrata il sottoscala contiene i soliti mucchi di pagine tolte ai libri sacri. Ci facciamo regalare due pagine dal monaco, che non fa difficoltà. All’interno il dukhang è scuro e polveroso, la grande kora che circonda le due  cappelle  principali (vuote e anch’esse e desolate) a sud è coperta di belle pitture ma sono in generale in grave stato di degrado. Ci facciamo aprire, non senza difficoltà, le due cappelle laterali chiuse al pubblico. Il Segoma Lhakang a sinistra un tempo conteneva il Kanjur di Buton, ci sono splendide pitture Newari del 14° e 15° secolo dei cinque Tathagata e un grande mandala. Fotografo tutto e mi accorgerò che per due volte la pellicola non ha girato nella macchina, nonostante l’aiuto di Roberto che mi ha imprudentemente affidato questa documentazione. Nella cappella a destra dell’entrata, (Gosum Lhakang) una dolorosa sorpresa: il pavimento è ingombro di decine di statue a pezzi, ammaccate e ferite, di frammenti, di fregi. Ammaccature e buchi deturpano loti e troni, alcune teste staccate sono abbandonate tra polvere e detriti. Su questa rovina splendono impassibili alle pareti i grandi dipinti  Nepalesi ancora perfetti. Anche qui purtroppo la macchina non funziona e mi mancherà una documentazione che mi sarebbe stata particolarmente cara. Ai piani superiori altre cappelle e pitture tra cui i mandala di Buton, purtroppo anch’essi in rapido deterioramento. La cappella principale (Dedan Lhakhang) contiene molte importanti reliquie e statue, tra cui i due chorten di bronzo con le reliquie di Buton e di Atisa, il Chenresi di pietra nera e bianca e la piccola tangka di Virupa. Alle pareti i grandi mandala di Buton. Nonostante la buona volontà dopo un po’ il ricordo delle varie cappelle si sovrappone e si confonde.
Lasciamo Shalu in un caldo soffocante, e dopo parecchi inconvenienti (abbiamo lasciato il Chan a Shalu e dobbiamo tornare a riprenderlo, il custode lo ha dato a un’altra guida che lo ha portato con sè) arriviamo a Shigatse.  Breve sosta all’albergo e poi ripartiamo per Sakya. Arriviamo tardi e cerchiamo un rifugio per la notte, che troviamo finalmente nella guest house governativa, una serie di edifici bassi a un piano all’entrata del villaggio dall’apparenza abbastanza pulita. In realtà è primitiva ma comoda, e dormiamo ottimamente.

Venerdì 4
appena svegli ci organizziamo per la visita a Sakya. La visita ci riconferma che questo è il monastero più sontuoso e raffinato del Tibet, l’immenso dukhang dalle enormi colonne lignee, le alte statue coperte d’oro e di gioielli, gli autentici capolavori dei nimbi e delle aureole, le pareti coperte di pitture antiche e ben conservate. E’ in corso una funzione di una trentina di monaci, e visitiamo il tempio nell’atmosfera resa suggestiva della musica e dalle volute di fumo profumate. Purtroppo non ci lasciano visitare la biblioteca, dietro alle grandi statue dei Buddha e gli stupa degli abati. Anche qui le regole aumentano con il turismo che cresce. Rovinavano, ci dicono, i libri per vederli o per avere ricordi. Temo sia solo un espediente, ma non ho voglia di insistere. Visitiamo le cappelle dai grandi stupa dorati che custodiscono i resti dei grandi abati di Sakya, ammiriamo le  belle pitture, il gomkhang con la curiosa statua dello spirito femminile che infestava la zona secondo la leggenda all’origine del monastero, e che è stata imprigionata dal primo abate. Al piano superiore scopriamo una cappella solitaria con una statua molto importante, e un ampio atrio con pitture interessanti per tre quarti in stile Newari, e per un quarto in stile decisamente cinese.  Scendendo visitiamo per ultima la cappella dei grandi stupa bianchi, dalle pitture imponenti ma purtroppo alte e lontane sulla parete opposte. Davanti alla balaustra di legno una bella statua di bronzo di Sakyamuni, dalla curiosa aureola semi rettangolare.
Lasciamo Sakya e raggiungiamo Lhatse. Pranziamo in uno squallido ristorante cinese, con una concentrazione di ragazze in minigonna e tacchi alti che pare interessare parecchio il nostro staff. Trovo il villaggio, una lunga teoria di botteghe e locande lungo la strada principale che porta in Nepal, piuttosto evoluto rispetto a cinque anni fa. Le locande sono prevalentemente cinesi, i tibetani sono prevalentemente mendicanti, e l’insieme è piuttosto squallido. Forse la colpa è anche delle inondazioni dell’anno scorso, che hanno creato molte difficoltà ai tibetani soprattutto ai nomadi. Proseguiamo verso ovest su una strada infernale che segue il letto del fiume, costellata di cantieri. Ci accampiamo a Lang tso, (Chan pag.865)  in riva al lago e alle porte di un piacevole villaggio, tra mandrie senza fine di capre, pecore cavalli e yak, che pascolano nella sera piena di sole e di vento. Siamo in una grande valle aperta, con il lago al centro: il grande Tibet dello Ngari si avvicina. Siamo molto stanchi, ma abbiamo qualche ora di riposo.

Sabato 5
Leviamo le tende in una giornata sfavillante di sole, e ci avviamo fiduciosi verso il Chung Rivoche, confortati dalla lettura del Chan (pag. 451, carte a pag. 865 e 457) e dalla consultazione delle carte che sembrano indicare una gita non difficile. Qualche chilometro di strada pessima sul greto del torrente, poi la strada migliora e a pochi chilometri da Namring, a Kaga, si volta a sinistra (per fortuna la guida pare sveglia perché non ci sono segnalazioni e la traccia è appena visibile).  Dobbiamo attraversare il tratto di montagna che ci separa il Raga Tsangpo dal Bramaputra, e ci aspettiamo un percorso relativamente breve a giudicare dalla carta. Come al solito avevamo sottovalutato il Tibet e le sue dimensioni: ci arrampichiamo senza fine su montagne solenni e brulle, lungo una strada non male ma che sembra non finire mai, tra i 4800 e i 4900 metri. Due passi sui 5000 metri, pochissime tende nere, qualche lepre. A intervalli regolari piccole torri, che scopriamo essere pali della luce in mattoni di zolle compatte, che qui ricoprono tutta la montagna come una pelle spessa. Quando non ci speriamo più, ecco una montagna che chiude l’orizzonte, e inizia la discesa verso il Bramaputra: la strada evidentemente non è transitabile, perché ci infiliamo sul greto di un torrente e usiamo quello. Giù a salti e scossoni per molti chilometri, mentre il panorama intorno diventa selvaggio e la valle stretta e ripida. Finalmente ecco il Bramaputra, un calmo nastro che scorre denso in una valle piuttosto stretta. Un ponte ci consente di attraversare per avere informazioni sulla strada al primo villaggio (Matho), e ci consigliano di restare da questa parte del fiume. Continuando, la valle si allarga, il fiume è splendido, liscio, largo, in vallate ampie e coltivate. Stanno arando la terra con yak e cavalli e la cosa mi sorprende sempre: seminare a giugno. Ci illudiamo di essere vicini, ma guardando bene la carta sono quasi trenta chilometri di fiume, e le strade sono piuttosto cattive. Nel caldo assurdo di questi 3000 metri, a livello del Bramaputra, attraversiamo villaggi, anse, valli sempre più ampie, aspettandoci di avvistare il grande stupa dietro la prossima svolta. Mandrie di yak con il fiocco rosso aspettano al mercato, rocce scoscese costeggiano il fiume, l’altra riva scompare in un tremolio di caldo. Quando siamo quasi all’esasperazione, ecco dietro un’ansa del fiume particolarmente bella spuntare la cima del Chung Riwoche. Il luogo è ampio e deserto, la montagna sul lato opposto del fiume mostra come una ferita le rovine del monastero distrutto di Tangton Gyalpo. Sulla riva del fiume in una folta macchia di alberi troneggia il Chung Riwoche Kumbum, un monumento un tempo tra i più belli del Tibet con i suoi occhi compassionevoli, e i suoi otto piani di cappelle dipinte, descritte da Vitali (Early temples.. da pp. 123). Un vecchio cortese va a chiamare il custode, il  monaco solitario che custodisce lo stupa e il piccolo tempio annesso. Questi si mostra cordiale e disponibile, ma purtroppo le pitture sono quasi completamente scomparse, vittime dell’incuria e delle intemperie. Ombre di mandala sono visibili al primo piano e, sopra, qualche bordo inferiore delle pitture e dei mandala testimonia una interessante opera di artisti che qualcuno dice locali, pochi segni rimasti che scompaiono in una massa di superfici dilavate e totalmente illeggibili. Saliamo piano per piano nel volo di piccioni che peggiorano lo stato di conservazione del poco rimasto, e usciamo nella torretta un po’ pericolante. La vista è sul villaggio, con le sue sonnolente case e le greggi, sul monastero e sul fiume che scorre tranquillo ma veloce, con i suoi due ponti sospesi, di cui uno moderno ma che il nostro autista prudente ha preferito non testare, e quello antico che la tradizione vuole il primo dei 108 ponti del famoso costruttore Tangton Gyalpo, raffigurato con la sua chioma bianca nella iconografia tibetana. (A dire il vero Erberto Lo Bue mi racconta che come ingegnere non era un gran ché, e che i suoi operai, che oltretutto lavoravano gratis, minacciarono di farlo fuori per i pericoli che faceva loro correre: sindacalisti decisi del quindicesimo secolo).  Pare che il teatro, pure invenzione sua, gli avesse fornito i fondi per i ponti e gli edifici sacri: è noto che questo tipo di stupa avesse costi proibitivi.
Ci avviamo a ritornare un po’ ansiosi per i tempi: sono le quattro passate e a venire ci abbiamo messo quasi sei ore. Ma l’autista fa miracoli, e alle otto siamo di nuovo a Namring. Purtroppo all’appuntamento, una sorgente di acqua solforosa  con annessa guest house, non troviamo il camion. Dopo qualche discussione ci accampiamo in guest house, e la guida parte con l’autista alla ricerca del camion: ci troveranno Chandra e Tendi alle 10, ma ormai vogliamo dormire, e non vogliamo saperne di alzarci.

Domenica 6
Lasciamo la guest house e raggiungiamo il camion che si era accampato in un bellissimo posto ma parecchi chilometri più avanti, e che sta già smontando le tende. Ancora sole e caldo, e nonostante la fatica, ci mettiamo in marcia per  il lungo tragitto che ci porterà sulla strada Nord per Ali, attraversando una parte del Chan Tang, le “pianure del nord”. Chilometri interminabili sulla strada sud del Kailash, poi dopo Raga la volta a destra sulla strada 22 in direzione nord per Tsochen.  C’è un sole abbagliante e un vento fortissimo, e cerchiamo abbastanza a lungo un sito decente per il campo. Alla fine lo troviamo, in riva a un fiume, in uno spazio semi protetto da colline da tutti i lati. Siamo a 4900 metri e gli spazi troppo aperti sono micidiali. I nostri amici preparano tende e campo, e si dedicano a una battuta di pesca alquanto improbabile, gettando grossi ciottoli nel fiume per stordire il pesce e prenderlo con le mani. Non pensavo le catture fossero possibili, ma il fiume è talmente ricco di pesce, che riescono a fare qualche vittima, che sarà cucinata per loro.

Lunedì 7
Dopo una notte agitata per il raffreddore e la tosse che stupidamente mi sono preso, smontiamo il campo e partiamo per Tsochen. Poco dopo la partenza imbocchiamo una valle interessante, da lontano si vedono alti pennacchi di fumo bianco, avvicinandoci vediamo sul fondo della valle una serie di geyser, con gli alti soffi che sgorgano in modo quasi continuo. Esploriamo la zona fortemente attiva con numerosi sbocchi di acqua solforosa, (almeno credo) poi si continua. La strada è dura e sale, sale sempre sino a raggiungere i 5400 metri. Vallate gigantesche, laghi, altopiani che sembrano perdersi all’orizzonte, con qualche cima nevosa (a ovest c’è il Sanglung, una cima di 6200 metri) e un freddo cane, e siamo in estate. Il vento soffia spesso pungente. Lo strano di questi posti è, oltre alla dimensione indescrivibile, l’alternarsi di deserti pietrosi a valli dai colori cangianti, dal blu dei laghi al giallo, all’ocra ai verdi, ai marroni. La parte più alta è nuda e sterminata, con alte colline pietrose. Si scende poi verso una natura più dolce, con alcuni laghi, di cui uno che sembra coperto di sale, (ma mi dicono che è calce), e acqua che scorre. Incontreremo molte marmotte amichevoli, poi quello che sembra un giovane stambecco, e al termine di una valle breve ecco due stupendi kiang ci attraversano la strada: poco lontano pascola un gruppo di circa venti esemplari, ma non si lascia avvicinare. E’ una emozione forte perché il kiang è il simbolo del Tibet di un tempo, quando i branchi di questi animali unici vivevano a migliaia nelle grandi vallate. Vediamo ancora due antilopi grigie, dalle lunghe corna appuntite che un tempo servivano ai cacciatori da base per i loro lunghi fucili, e due piccoline il cui colore giallino si confonde talmente con il pascolo da essere quasi invisibili. Dopo una estenuante marcia di otto ore, ci accampiamo in un posto piacevole dopo Tsochen.

Martedì 8
Come previsto non riusciamo a togliere il campo prima delle 9. Il tempo è buono ma non ottimo e ci attende una tappa lunga sino a Gartze. A Tongtso termina la bretella che collega le strade sud e nord del Kailash, e ci si immette sulla via del nord che collega Amdo ad Ali, sul bordo inferiore del Chan Tang, immenso altopiano abitato prevalentemente dai nomadi e ricco di fauna selvatica, ora grande parco nazionale per salvare quello che è rimasto. Lasciamo Tsochen e il panorama è sempre ricco e solenne, con alti pascoli a 5400 metri. A mezzogiorno su un passo si mette a nevicare, e ci rifugiamo in una locanda a bere tè tibetano e riposarci un po’. Nella stanza dal pavimento di terra e dalle stufe in azione ci sono conducenti di camion che ci guardano con curiosità mentre si impastano la tsampa in grandi scodelle, seguita da grandi pezzi di carne secca (sembra un intero costato di pecora) estratta dai profondi sacchi ai loro piedi. Dobbiamo sembrare piuttosto incongrui con la nostra aria disfatta e le nostre giacche a vento di piuma in questo angolo di mondo sperduto, destinato a uomini forti che risalgono con indifferenza sui loro camion cinesi sormontati dai simboli augurali. Vediamo ancora branchi di kiang, gazzelle e marmotte. Alla intersezione con la strada del nord, costeggiamo un grande lago che crea illusioni ottiche nel sole, ma riflette soltanto le nuvole che se ne vanno verso oriente. Seguirà una immensa pianura, (a 4700 metri) contornata a sud da qualche alta montagna (gli orli del Kailash range?) e a nord da cime più arrotondate che fuggono verso il confine e la catena del Kun Lun, una piana un po’ desolata e monotona, sulla strada faticosa, anche se abbastanza veloce, che porta sino a Gartse, una assolata cittadina che si materializza in mezzo al nulla. E’ in realtà un grande punto di raduno e un importante mercato per i nomadi della regione: di qui partono alcune piste da trekking per mete isolate. Immagino cosa possa essere infilarsi in quelle vallate per raggiungere il cuore del Chan Tang. Ci accampiamo un po’ dopo Gartze, voltando a sinistra per risalire una piccola conca alla ricerca di acqua pulita, dopo che Roberto ha giustamente rifiutato un posto a valle di un villaggio e di greggi. Ci infiliamo in una piccola valle a nordest, e siamo in riva a un ruscello di acqua sorgiva: a sinistra un piccolo tempio su una piccola cresta, superato il quale siamo al centro di un circo naturale di rocce scure sotto a un’alta cresta rocciosa.
Le tende sono in riva all’acqua, la serata è dolcissima, spero che la tosse mi lasci dormire.

Mercoledì 9
La notte è stata ottima, il sonno ristoratore, e tutto ci concilia con il luogo, dominato dal tempietto modesto, dalla struttura quadrata, coperto da un tetto adorno di corna e cosparso di pietre scolpite con preghiere. E’ rivolto verso la vallata, con le lunghe braccia che lo circondano e la sorgente nel mezzo. E’ sicuramente dedicato a un “genius loci”, e prima di partire gli porto una kata per ringraziarlo delle belle ore e della  buona nottata. Ci mettiamo in cammino un po’ a malincuore, in direzione di Yanhu che dovrebbe essere la nostra prossima tappa, l’ultima prima di Ali. La strada alterna immense pianure ghiaiose e assolate con strisce di un verde illusorio e lontane catene nevose che chiudono l’orizzonte, a vallate più strette e nell’insieme più belle, con alte catene di tutti i colori che chiudono la vista, alte montagne di sabbia e strati di roccia che impazziscono in tutte le direzioni, alcune pareti di  roccia dagli alti pinnacoli. Ogni tanto si vedono tende nere e greggi, ma nell’insieme questo immenso territorio è scarsamente abitato. Alcune gazzelle, qualche kiang, lepri e marmotte si materializzano all’improvviso nella loro livrea mimetica e raramente si fanno avvicinare. Nelle ampie pianure, qualche lago semi prosciugato, dai grandi mucchi di sale (o carburo o calce che sia, dovremmo  chiedere a qualcuno che sa). Lungo le rive, grandi greggi di capre e pecore che pascolano nell’erba rada di queste rive salate.
Raggiunto il luogo stabilito (un po’ prima di Yanhu, un semicerchio di case con due edifici governativi e qualche capanna che ospita locande cinesi e tibetane) ci accampiamo in una piana bruttina, che degrada dalla strada rocciosa verso un terreno lacustre: dovrebbe esserci una sorgente che dà acqua accettabile. Disastro, il camion si impantana in modo irrimediabile in quella che si rivela una palude o il bordo di un lago che ormai si ritira in piccoli specchi isolati un po’ più lontano oltre il campo.
La guida chiede aiuto e due camion  guidati da Khampa cortesi dalle fasce rosse nei capelli che tentano il soccorso. Uno dei loro camion a sua volta si impantana e riesce a liberarsi soltanto dopo alcune ore di sforzi collettivi, e a questo punto giustamente se ne va. Cala la notte su un’atmosfera piuttosto lugubre, nonostante l’ottimismo della guida (…domani verranno 10 operai ad aiutarci, poi c’è il sistema del cavo d’acciaio agganciato alla ruota posteriore del camion e ancorato alla toyota…) A buio la notte è rotta dalle grida delle anatre, che passano a coppie e a gruppi sopra le nostre teste e vanno a dormire da qualche parte su specchi d’acqua ad oriente.

Giovedì 10
Ci svegliamo al chiacchierio delle anatre che ritornano da dove erano venute. La notte è stata buona, ma siamo intirizziti e assistiamo agli sforzi per disseppellire il camion, impantanato fino al differenziale. I dieci operai sono quattro contadini scalcinati, dotati di pale che non stanno insieme. Miracolosamente alle undici il camion emerge come un mostro infangato dal pantano, ancorato alla toyota, con il sistema descritto dalla guida. (Il cavo viene agganciato da un lato al mozzo della  ruota posteriore dall’interno e dall’altro alla toyota, lontana quanto il cavo è lungo, e ben ferma. Il camion avvia a marcia indietro, la corda si arrotola sul mozzo della ruota del camion e il camion schizza verso la toyota). Non lo avrei mai pensato possibile, ma siamo contenti di non dovere subire ritardi e problemi. Partiamo per Ali in un’altra giornata di panorami stupefacenti talvolta monotoni quando le vallate si aprono in grandi pianure troppo vaste, ma più spesso affascinanti tra vallate più strette e corte, fiancheggiate da costoni dai colori strani in cui la natura si diverte a disegnare, a scolpire rocce, punte, colline arrotondate grigie, rosse, verdi a strisce, in un mondo dove gli scarsi abitanti diventano puntini isolati nell’immensità, con le loro greggi di capre o di yak, più raramente di cavalli, o la rara ma sorprendente fauna residua di gazzelle color salvia e kiang color ocra dalla linea elegante. Per la pausa del pranzo, dopo quattro ore di corsa  entriamo nel favoloso mondo dell’Indo, lo spartiacque è cambiato, il fiume leggendario, qui già un bel corso d’acqua di dieci metri di larghezza, corre verso l’India e il Pakistan. La vallata è verde e alpestre, piena di yak che riposano maestosi e tranquilli lungo le rive, la strada è scoscesa sotto rocce a picco, in fondo ci sono tende e mucchi di pietre, la striscia d’acqua è un nastro scintillante nel sole. Seguiamo il  corso del fiume, tra valli strette e rocce imponenti, il fiume corre già profondo e impetuoso, ma limpido, sino all’aprirsi di una valle ampia e bellissima con una corona di alte montagne innevate che formano una immensa corona scintillante. Al centro Ali, o Shiquanhe o Senge Tsangpo (Fiume Indus), o Gar. Da secoli avamposto di frontiera, porta del Ladakh e del Turkestan, ora una strana città relativamente moderna con una forte impronta cinese, importante nodo strategico militare, con gli edifici governativi, la posta, il telefono, la dogana. Qui non si può piantare la tenda, è obbligatoria la guest house, anzi l’Hotel Ali, che per noi rappresenta un’oasi di riposo dopo i giorni di campo. Dovremmo partire domattina, decidiamo di rimanere un giorno in più, per dormire, cercare le medicine per la tosse  e dare un’occhiata in giro. Ci installiamo con piacere in una camera ampia dai letti comodi anche se non c’è la luce e mancano i servizi igienici (vasca da bagno piena d’acqua per fornire l”acqua corrente”. Dalla sua apertura l’albergo è gestito dalla polizia, e non è mai stato portato allo standard dichiarato.

Venerdì 11
Sveglia tranquilla e ordine nei bagagli. Purtroppo Roberto ha preso il raffreddore e mi sento mordere dal rimorso. Spero che la sua reattività ai medicinali, apparentemente molto migliore della mia, renda la pausa di malessere il più breve possibile. Ci diamo alle cartoline e ai diari ma l’aver perso l’agenda a Kathmandu rende il mio pacco di cartoline piuttosto  inconsistente. In camera ci sono i tappeti e abbiamo persino un salotto contiguo, munito di divani, scrittoio e tavolini in stile tibetano. Vado con la guida a cercare una medicina per la tosse. Fa freddo e la guida mi spiega che la specialità del clima di Ali è che fa freddo, caldo e vento tutto insieme. La farmacia è una bottega che mi offre alcuni medicamenti cinesi a base di principi strani. Prendo l’unica con scritte in inglese (spero non sarà nociva). Dopo il pranzo cinese vado con Roberto a telefonare a casa (15 yuan al minuto, prezzo moderato) e a vedere la città. Ali è formata da una grande high street che corre in direzione  est – ovest, di cemento, con fossati ai lati della strada, e con ampi marciapiedi. Da Est  entra la strada da cui siamo venuti, a metà una piazza con il solito monumento social realista, al fondo il Palazzo del popolo. Interseca la piazza un’altra grande strada che porta a sud al mercato, al ponte sull’Indo e alla strada per il Kailash: a nord si va a Rutok e all’antico confine con il Ladakh, ora chiuso al traffico turistico. Lungo la strada principale, negozi, locande, locali notturni (Karaoke) e l’albergo. Nel piccolo mercato cose utili ma nessun oggetto interessante, se non banali oggetti nuovissimi quasi tutti cinesi. Il ponte sull’Indo è nuovo, e fiancheggia il vecchio, più piccolo. Da qui si gode di una buona panoramica della città, in una piana immensa, attraversata dal fiume che raccoglie il suo maggiore affluente, il Langchu Tsangpo, e poco prima il Gar. Una corona di cime bianche a nord, e a est, da qualche parte deve continuare nel Kailash range che troveremo domani o dopo. Sopra la città a nord incombe una enorme duna sabbiosa che sembra debba inghiottirla da un momento all’altro.

Sabato 12
Lasciamo Ali alle nove, purtroppo Roberto è in preda al raffreddore che gli ho regalato, attorno al monumento stazionano gruppi di operai con gli strumenti di lavoro.
La giornata è splendida ma si guasterà più tardi con un tetto grigio di nuvole. Nei prossimi giorni vedremo spesso nubi nere sul  Kailash range. Attraversiamo la piana desertica di Ali, il camion segue la sua pista personale inventandosi gigantesche scorciatoie.  Pieghiamo verso un varco nelle montagne all’orizzonte, superiamo i primi rilievi che ci portano verso il Langchu Tsangpo. Attraversiamo un vallata verde e piena di cavalli, lunghissima, verde al centro dove scorre il fiume e dagli orli sabbiosi a ridosso delle colline. Dopo una lunga corsa e altre colline ecco la valle del Gar, altro affluente dell’Indo (Dorje Tibet Handbook pag. 402) con una serie di villaggi che scorrono, Ridong, Lungmar, Gar Gunsa (la vecchia sede estiva di Gartok, un tempo sede del viceré tibetano, ossessione dei viaggiatori perché era responsabile dei permessi di viaggio). Dopo Gar si attraversa il fiume, e a Nabru (Chan pag. 954) si svolta verso destra per i passi che conducono a Tholing. Le guide indicano itinerari diversi. Noi dobbiamo andare a Dungkar e il Dorje mostra una strada diretta che parte da Dzo Nakpo (Dorje pag. 423), qualche chilometro dopo Namru (che suppongo sia il Nabru del Chan). Secondo la guida questo è un posto militare e non c’è strada per Dungkar.  Opta quindi per la classica via dei grandi passi, per poi prendere una strada che porta a Dungkar  poco prima  di Tholing. La strada si inerpica con una serie di ripidi tornanti, si sale verso l’Ayi la e il Laoche la, due passi spettacolari a ben più di 5000 metri, i passi più alti del nostro viaggio. Sulla cima dell’ Ayi la i pali delle preghiere sono curvi e quasi spezzati per il vento fortissimo, e si fa una gran fatica a camminare controvento. Sotto si vede a picco la vallata del Gar, più di mille metri  sotto. Scendiamo in una vallata  verdissima, isolata e silenziosa, ricorda in modo innaturale la Scozia (salvo le montagne più alte), e poi di nuovo il terreno si inerpica su un secondo, più aspro passo che a me sembra più alto del primo anche se il Chan parla di 5250 metri. Qui la montagna è sfasciume nero, la discesa è ripida e cosparsa di chiazze di neve. Quasi in fondo si costeggia un lungo vallone innevato per  più di un chilometro. A pochi passi sulla destra vediamo uno splendido esemplare di quello che ci sembra uno yak nerissimo, ci guarda con sfida ma poi si allontana. La guida dice che è un Dos, uno yak selvaggio, ne sono rimasti pochissimi, ricordo le malaugurate cacce di Sven Hedin e i suoi trofei.  Purtroppo si sottrae all’obiettivo quando siamo pronti per fotografarlo. Forse anche l’esemplare solitario visto sui passi era di questi. Era la sola traccia di vita che abbiamo trovato da Nabru.
Scendiamo nel sistema idrografico della Sutley (comunque anche questa affluente dell’Indo) e ci accampiamo poco dopo il passo in riva a un torrente (si rivelerà il peggior campo del viaggio, gelido e umidissimo). Ci sono molti viandanti e nomadi con le tende nere e grandi greggi di capre che scendono dai pascoli a sera. La guida si informa della strada per Dungkar, dove ci sono “famose pitture”.

Domenica 13
Ci svegliamo intirizziti dal freddo e dall’umidità, con il sole ancora lontano. Il cielo è bigio, tira vento e fa freddo. Purtroppo la guida dormigliona tarda a mettersi in moto e partiamo che sono quasi le 10. Usciamo dalla valle e imbocchiamo l’enorme altopiano che porta a Tholing. La strada é spesso interrotta da profonde fenditure nord-sud in cui bisogna scendere per risalire dall’altra parte. Dopo alcune difficoltà per individuare la strada e una lunga attesa del camion che ha avuto problemi alla pompa della nafta, imbrocchiamo una traccia quasi invisibile che ci trascina giù per un vallone che sembra non finire mai. Il mondo intorno cambia all’improvviso: siamo in un canyon dalle rive tormentate, sembra una discesa in un altro mondo, fatto di rocce aguzze e di pareti di grosso conglomerato che sembra dover disfarsi in un fiume di ciottoli. Le alte pareti di roccia sono attraversate da mille cavità, e d’improvviso, passati sotto una specie di arco, attraversato da un grosso tubo che fa da ponte a un canale, sbuchiamo sul fondo di una grande vallata, perpendicolare alla nostra direzione di marcia. Un girone dantesco, ma qui non siamo agli inferi, è una vallata verde e con ampie zone coltivate, con un grosso ruscello che scorre al centro e un canale a lato che porta acqua limpida e frasca  a diversi villaggi. La valle su alcuni lati è chiusa per chilometri da alte pareti rocciose costellate di caverne e di buchi, e da creste aguzze. Chiediamo di Dungkar (Dorje pag. 436) e ci indicano una grande parete di roccia, un sentiero scosceso porta ad alcune grandi porte di ferro, contornate da orrendi stipiti di cemento. Sono le famose grotte scoperte nel 1992 da un medico che vi ha trovato pitture meravigliose. Approfittando della visita di un gruppo di due o tre alti funzionari governativi cinesi la nostra guida riesce ad ottenere il permesso di accodarci per una visita, e quasi correndo (è un modo di dire, perché in salita ci ogni pochi metri bisogna fermarsi per respirare) ci affrettiamo a seguirli. Pare sia molto difficile ottenere il permesso di visitare le caverne e la nostra è una notevole fortuna. Purtroppo ho perso il supporto del flash, e non potrò fotografare, cosa peraltro che si rivelerà proibita a tutti.  Superiamo i 100, 150 metri di dislivello sul sentiero  quasi verticale e varchiamo  con emozione la soglia di uno degli obiettivi più importanti del viaggio: la porta centrale cela una grotta circa 7×7 un tempo contenente statue, coperta di grandi mandala dipinti con colori prevalentemente azzurri, e un soffitto di cinque grandi mandala degradanti a formare una cupola. Il mandala centrale è bellissimo, purtroppo compaiono alcuni segni di degrado, sia sul soffitto che alle pareti, rispetto alle bellissime fotografie del servizio pubblicato su Orientations. I restauri per i danni arrecati dall’acqua e dal tempo sono grossolane spatolate di cemento, vere ferite al delicato insieme di disegno e colore. La grotta di destra cela un’altra deliziosa serie di pitture, anche se mi paiono  meno aeree e accurate. Le mani sono diverse, le pitture sono di artisti indiani che lavorarono in Asia  centrale  sulla via della seta forse nel decimo secolo, il tratto è leggero e fluttuante, e ricorda i templi di Dunhuang.  La terza grotta è una delusione:  il degrado sta divorando le pitture, e dimensione e qualità delle pitture sono molto più modeste. Credo questa grotta sia destinata a scomparire tra pochi anni, se un intervento urgente e qualificato non recupera il recuperabile. Finita la visita ci scopriamo accampati a poca distanza dalle grotte, in un angolo verde in riva al canale: mandrie pascolano nei dintorni e davanti a noi dall’altra parte del fiume un allineamento di stupa in rovina ci guarda. E’ un posto magico e la giornata che si è rimessa al bello contribuisce al senso di pace. In attesa di visitare Piyang vado a fare una passeggiata tra le rovine degli stupa, alti una cinquantina di metri sopra il fondo valle: alcuni sono ormai mucchi di pietre con i gradini appena accennati, ma uno stupa della discesa dal cielo conserva una buona parte della forma, inclusa la scalinata, e tracce dell’antica bellezza. Un muro sormontato da piccoli stupa faceva parte di un antico perimetro, e l’allineamento dei grandi stupa, almeno cinque, guarda diritto le grandi occhiaia delle caverne di Dungkar dirimpetto.  Il sito è un interessante miniera di formazioni geologiche, e mi spiace di non avere studiato meglio mineralogia.
Più tardi andiamo a Piyang, (Dorje T.H. pag. 436) altra “comunità trogloditica”, che la guida non conosce, a cercare grotte e pitture. A qualche chilometro dall’accampamento, all’altra estremità della valle rispetto al villaggio di Dungkar si apre una scenografia impressionante: una parete di 150 – 200 metri di altezza chiude la valle ed è un traforo di caverne, grotte e sentieri che portano in vetta alle antiche rovine di due monasteri. A mezza strada un tempio rosso pare sospeso su una piattaforma, a strapiombo sul villaggio più in basso. Saliamo un ripido sentiero: le grotte sono abitate ma in gran parte adibite ad ovile o ricovero di bestiame e di attrezzi. E’ un dedalo di viuzze e buchi neri . Il tempio, sospeso in modo vertiginoso con un cornicione aereo che ne fa il giro, in restauro avanzato, è quasi vuoto e conserva solo alcune tracce di pitture,  apparentemente di stile indiano,  sul bordo inferiore della parete, quasi all’altezza del pavimento. Al centro un trono (Sakya?) con due leoni delle nevi che ancora si riconoscono: il resto è andato distrutto. Pile di pagine sacre sull’altare, e gli oggetti con cui il monaco cerca di creare un  piccolo tesoro per il tempio. Un antico tavolino ligneo, due copertine di libro sacro. Uscendo, saliamo ancora per trovare, a due terzi della salita una  rossa costruzione che costituisce l’ingresso a una importante grotta affrescata. Le pitture sono estremamente interessanti Raccontano l’invio dalla Cina in India di Buddisti cinesi, con strani cappelli a tre falde. Viene in mente la sfida delle scuole Buddiste durante l’epoca imperiale, sarà interessante vedere la documentazione fotografica. Alla parete di fondo la traccia di una grande statua di cui rimane solo lo zoccolo a grandi fiori di loto. In una teca il monaco ci fa vedere alcuni antichi Tsa Tsa, di bellissima fattura, alcuni iscritti e datati. Saliamo ancora per un sentiero, che si fa piuttosto esposto, alle rovine del monastero: per entrare bisogna strisciare e in vetta il vento fischia tra le creste che mostrano centinaia di grotte e ancora altre rovine di un aereo eremitaggio. Un muro, il più alto, totalmente esposto alle intemperie, reca pallide pitture di divinità ripetute più volte, alte  circa venti trenta centimetri. Questo luogo è veramente speciale, un denso aggregato di messaggi della natura e dello spirito, un mondo di vento e di creste affilate, nel sole che comincia a scendere verso il tramonto. Il resto della serata è tranquilla, con piccole passeggiate , marmotte, lepri, pernici e bellissimi uccellini che mi seguono, con un tranquillo tramonto e poco vento.

Lunedì 14
Un’ultima passeggiata al mattino assieme a Roberto in questa valle verde e silenziosa: esploriamo una spaziosa grotta naturale, arricchita da rifiniture e dépendances. C’è la cucina, una grande nicchia in cui pare di distinguere tracce di pittura, e la caverna principale, ora probabilmente adibita ad ovile. Tre grosse lepri  scappano pigramente al nostro arrivo. 
Partiamo in direzione del villaggio di Dungkar, e solo l’assuefazione al grandioso dei due giorni passati ci evita di rimanere un’altra volta esterrefatti davanti a questo villaggio, sovrastato da alte pareti disseminate di caverne, imponenti e con una struttura interessante, sotto la cresta che potrebbe nascondere altre sorprese. Visitiamo invece il monastero ricostruito di Dungkar, che sovrasta il villaggio in direzione della gola che esce verso est. All’interno il capo villaggio ci mostra antiche copertine lignee, una decina, di cui alcune particolarmente interessanti, con rilievi a tutto tondo, e le statue di bronzo dell’altare. Due sono molto belle in special modo un Sakyamuni stante di circa 60 cm. con occhi d’argento e un viso bellissimo. Sfortunatamente i drappi impediscono un esame completo, ma la fattura è decisamente di tradizione indiana. Anche l’altra statua, più piccola, è bella, ma anch’essa di difficile esame sotto i drappi preziosi. Proseguiamo alla ricerca di Dumbo e delle sue pitture, ma dobbiamo abbandonare per la difficoltà di reperire il luogo. Abbiamo abbandonato la valle, siamo risaliti sull’altopiano e secondo me siamo decisamente fuori strada. Torniamo indietro sulla strada per il Kailash, e imbocchiamo la deviazione per Tholing. Ripercorriamo con la consueta meraviglia questa strada infernale, che scende dal verde pianoro verso l’incredibile groviglio di canyons in mezzo ai quali scorre la Sutley. Nel caldo e nel sole ci addentriamo in mezzo ai torrioni sabbiosi dalle forme fantastiche, giù giù sino al fiumicello che scorre sul fondo, nella stretta valle coperta di arbusti spinosi ora in fiore. Giunti in piano, si svolta a sinistra fino all’aprirsi della grande valle di Tholing, attraversiamo il ponte presidiato dalla casamatta, e via verso l’oasi di Tholing immersa tra gli alberi alti. Tholing è splendida, con il grande solco del fiume, e le alte terrazze del villaggio contrassegnate dall’allineamento di stupa, e i torrioni incombenti traforati di grotte e caverne, e i suoi ricordi di passata grandezza. Ora un grande stupa nuovo si annuncia da lontano, un po’ pacchiano nelle linee postmoderne. Sorpresa, non c’è posto in guest house, tutta Tholing è assediata da funzionari del governo, fortunosamente ci accoglieranno i militari in caserma, devo dire in una camera piuttosto comoda: manca l’acqua corrente, ma i servizi igienici ci sono, e gli ufficiali cercano di attaccare discorso in un inglese disastroso.
Apprendiamo che tutte le visite sono sospese, i funzionari sono un gruppo di personaggi importanti, a Tholing per la cerimonia inaugurale del restaurato tempio mandala di Yeshe-O. Partecipiamo alla cerimonia che prevede danze folcloristiche, e un cortesissimo “Commissario della Contea” ci invita a sedere in prima fila citando Tucci e le sue esplorazioni tibetane. Purtroppo le danze sono precedute da tre ore di discorsi in cinese di almeno quindici oratori che si succedono al tavolo delle autorità.  Ci sono funzionari  cinesi e tibetani,, alcuni vengono da Pechino, altri da Lhasa, tra loro il responsabile del restauro, un ingegnere tibetano che ha già una larga esperienza in materia. Lo spazio tra il tempio mandala e il tempio rosso è pieno di gente, centinaia di bimbi in uniforme di scuola seduti per terra davanti al tavolo degli oratori, ai lati civili e militari, noi e un paio di turisti inglesi. Dopo i discorsi le danze in costume, un po’ monotone  ma per noi è una sorpresa, e in ogni caso non ne avevo mai viste. Ma il miracolo è altrove: davanti a noi dove prima erano polverose rovine e mucchi di sporcizia, è rinato il mitico tempio mandala di Yeshe-O, un re di Guge dell’undicesimo  11° secolo, il difensore del Buddismo che offrì la sua vita in cambio della venuta di Atisa in Tibet.  Restaurati i quattro stupa indiani ai quattro angoli, risorte le mura imponenti del grande fabbricato, e il grande portale con l’atrio difeso dal sole dal nero mantello in pelo di yak. A fine cerimonia sgattaioliamo dentro al seguito di un gruppo di autorità, e dove tre anni fa avevo visto con dispiacere mucchi di macerie, ecco riemergere il grande spazio architettonico del passato. All’interno, giustamente, non hanno cercato di nascondere le ferite della distruzione, ma hanno lasciato i resti atti a suggerire quanto è rimasto dei tesori del tempio (Dorje T.H. pag. 426-427), i resti del  trono centrale della divinità tantrica con un pannello ancora intatto, le tracce delle aureole in rilievo lungo le mura perimetrali della sala che reggevano le statue a grandezza naturale sugli alti piedistalli, i frammenti di statue, un braccio, un volto, una finissima testa scolpita. Le decine di cappelle minori e quelle della cinta muraria sono delineate negli spazi , contengono quanto è rimasto di autentico, e sono chiaramente descritte anche in lingua inglese. Una cappella contiene centinaia di tsa tsa, probabilmente residuati di statue rotte, altre hanno pavimento o capitelli, alcune purtroppo sono chiuse a chiave e non riusciamo a capire se ci sono da qualche parte resti di pitture. Sono comunque grato a chi ha restituito parte della sua anima, anche se ferita, a questo luogo ove c’era soltanto sporcizia e dolore, anche se temo che questo luogo, un tempo centro di fede si avvii a divenire un museo. Finita la cerimonia  siamo molto stanchi e ce ne andiamo a dormire. Il mattino dopo i funzionari partiranno con le chiavi, e nessuno potrà più vedere il tempio.  Peccato.

Martedì 15
Oggi andiamo a Tasaparang, ma gli uffici per i permessi aprono alle dieci, e inganniamo il tempo passeggiando sulle terrazze sopra la Sutley. Scopro che l’edificio in rovina che avevo notato anni fa, con i segni augurali sui lati, era uno stupa: è stato utilizzato come base del nuovo stupa che si vede arrivando a Tholing. E’ uno stupa della discesa dal cielo, ma non ci sono i gradini e nell’insieme la fattura è modesta e i colori pacchiani.  Sulle rive della scarpata che strapiomba sul fiume i grandi corvi reali fanno adunata sugli stupa in rovina, e i rari fedeli percorrono l’antico sentiero pregando. Da qui si vede bene il tempio appena restaurato e facciamo qualche fotografia, i suoi quattro stupa angolari sono ora il centro focale di Tholing. Finalmente partiamo per Tsaparang.  Cerchiamo la sede estiva dei re descritta dal Chan, ma la guida non ne sa nulla, e dobbiamo desistere. Dopo la consueta corsa tra i canyon sassosi, ecco la piana di Tsaparang e l’incredibile complesso di rovine, e i monumenti della città reale. Entriamo nella cittadella e visitiamo con calma questo fantastico intrico di antichissime case e palazzi in rovina, di splendidi templi dalle antiche e belle pitture, dalle innumerevoli grotte, tunnel, passaggi segreti, pozzi, depositi d’armi, e persino prigioni. E’ strano pensare a una dinastia di re guerrieri  e insieme difensori e propagatori della fede, che si fortificano in modo imprendibile in questo groppo di roccia e terra, e nello stesso tempo chiamano dall’India i maestri Buddisti o inviano i loro ministri a invitare gli artisti Kashmiri per decorare i loro templi. Tsaparang è un rocca alta quasi duecento metri, ospitava il re e la sua famiglia, circa cinquecento famiglie, e i monaci per i suoi cinque templi. Dal basso il tempio bianco, con le grandi statue mutilate dalla miseria della rivoluzione culturale, e le splendide pitture di stile Kashmiro, il tempio rosso, con la grande nicchia vuota del grande Buddha e le pitture egualmente magnifiche nei loro innumerevoli dettagli, il Dorje Jigjie Lhakang, dedicato a Yamantaka e alle divinità tantriche tra cui quella protettrice di Tsaparang, Demchog o Samvara, con le pitture tantriche alle pareti. Le pitture qui sono fatte con grande utilizzo di oro e si staccano in modo particolare dalle pareti. Sull’altare manca la grande statua di Yamantaka, e ai lati troneggiano le figure dorate di Tsongkapa e di Atisa, uniti nella fondazione del Buddismo Tibetano a quattro secoli di distanza. Salendo ancora (molto a dire la verità, con un caldo tremendo e la fatica della quota) rivediamo la splendida cappella-mandala, con la sua meravigliosa porta di legno intagliato e  le pitture tantriche alle pareti, dedicate al ciclo superiore dello yoga tantrico, a Chakra Samvara, la divinità che risiede nel Kailash.  Sono tra le pitture più belle di Tsaparang e, sotto le divinità adirate,  si affollano creature fantastiche e le scene dei cimiteri con i naga che contemplano sereni l’umanità smembrata degli  inferni buddisti, (peraltro non permanenti)  forse soltanto elemento per la meditazione dei fedeli. Sotto la cappella un’altra, scavata nella roccia, di due metri per due,  il gom khang, ha altre pitture tantriche anche se più sbiadite, ma ancora in buone condizioni. E’ una sorpresa piacevole scoprire, a circa metà strada della rocca una nuova cappella scavata nella roccia e portata di recente alla luce, con delicate pitture azzurre di divinità benevole, e apsara fluttuanti, molto simili a quelle di Dungkar. Scesi in basso, ci vogliono portare a vedere una “grotta del cadavere” dove i resti in realtà potrebbero essere qualsiasi cosa. Un sentiero interessante, lungo un canyon stretto, ci riporta all’entrata del compound di Tsaparang, dove ci aspetta la macchina. Siamo esausti e, tornati a Tholing, ci riposiamo aspettando la cena. Dopo, una bella passeggiata ci porta a rivedere lo stupa di Yeshe-O nel tramonto: lo stupa è sempre bello, ma mostra anch’esso segni di degrado, e penso con terrore alla necessità di un restauro. La Sutley è d’argento nel tramonto, e torniamo alla caserma lungo la fuga di stupa che sovrasta il fiume,un mandala all’aperto in cui ormai la kora esterna sta diventando pericolosa, perché il sentiero in alcuni punti precipita sul fiume almeno cento metri più sotto. Domani ci dedicheremo ai templi di Tholing.

Mercoledì 16
Un po’ tardi (sono passate le dieci) ci incamminiamo verso il tempio rosso dall’entrata angusta nel piccolo cortile illuminato dal sole con la pianta verde al centro. Nel piccolo portico, sopra l’architrave,  due belle pitture un po’ sbiadite: una ruota della vita assolutamente fuori dell’ordinario, con una raffigurazione del monte Meru e un bellissimo Shingye che fa capolino dall’orlo superiore, e una tavola astrologica, entrambe antiche. Al centro una divinità che non ci sanno identificare, ma che documentiamo, sperando la foto riesca. Superate le quattro statue dei guardiani, nuovissime e dozzinali, entriamo nel dukhang, ampio e vuoto dalle colonne sottili. Dietro l’altare con il suo allineamento di statue si nasconde la bella e antica statua di Sakyamuni che fa da sfondo al secondo recinto del tempio. Cominciamo, con fatica,  la lettura delle belle pitture nella serie infinita di formelle che ripetono immagini di divinità , con qualche figura più grande a interrompere le rappresentazioni seriali. Al solito la cosa più divertente è la lettura della fascia inferiore, dove si affollano i personaggi e gli animali della storia di Guge, e dove la luce diretta della torcia, e l’aiuto degli occhiali consente una godibile passeggiata nel mondo elegante e fantastico delle storie raccontate. Di queste pitture, che risentono dell’influenza Indiano-Kashmira, e forse Nepalese, alcuni danno una datazione 13-14°, altri 15-16°. Dopo qualche ora, passiamo al tempio bianco, a lungo adibito a deposito di granaglie e ora restituito in parte alla dignità di museo, con una entrata pulita e una grande tenda tradizionale. In evidenza la strane colonne lignee dell’entrata, tozze, basse e dipinte. Il tempio è sempre vuoto, con il pavimento di acciottolato luccicante. Solo qualche sacco all’entrata ricorda l’utilizzo laico, che peraltro ne ha salvato le pitture. Anche se più tarde, le pitture di questo tempio mi riescono più gradevoli di quelle del tempio rosso, grandi figure di divinità, maschili a sinistra e femminili a destra. Il muro di destra è fortemente danneggiato, quello di sinistra splendido. Roberto documenta. Anche qui si gode la serie di figure all’altezza degli occhi, piene di particolari divertenti e più libere alla creatività dei pittori. Finalmente mi indicano il ritratto di Rin-chen-tsan-po, qui in compagnia di Atisa, su una spalle sinistra del muro di fondo. Avevo notato poche tracce di questo grande personaggio, principale artefice di un rifiorire del Buddismo a Guge.
Nel complesso la visita di questi templi deprime: le pitture sono molto belle e le storie affascinanti. Ma anno dopo anno un pezzetto di queste gloriose testimonianze artistiche scompare, vittima del tempo, dell’incuria o del turismo. E l’atmosfera di questi luoghi è di freddo museo, custodito da monaci appena sopra al livello di un custode  indifferente. Manca a questi luoghi sacri il calore del culto, che altrove abbiamo visto in tanti monasteri e templi del Tibet, pur con valori artistici molto più modesti da custodire. I mulini da preghiera all’ingresso sono sbrecciati e sporchi, mancano i sacerdoti e i fedeli. Sul calore desertico di questi luoghi è calato un silenzio un po’ desolato.
Nel pomeriggio andiamo a spasso verso le rovine di Tholing e le sue caverne paleolitiche sulle alture alle spalle della città. Scopriamo prima con sorpresa il lago artificiale nascosto in una conca subito a monte, che rifornisce l’oasi e i suoi orti di acqua corrente continua. E’ come trovare un lago nel Sahara, e restiamo un po’ a contemplare il miracolo. Ma vedremo che l’acqua sgorga con abbondanza dalle piccole valli laterali, viene probabilmente da lontano. Dopo ci infiliamo in una valletta laterale dove troviamo ombra e fresco. Infine ci avviamo verso il primo canyon profondo a sinistra della strada, in direzione di Tsaparang, risalendo  una stretta valle ricca di acqua, di erba verde e di profumo di menta. Riposiamo dopo la scarpinata estenuante sotto il sole a piombo, e ci godiamo il silenzio rotto solo dai corvi e dai numerosi uccelletti curiosi che ci svolazzano intorno. Sopra di noi le immense rovine della vecchia Tholing, arrampicate su bastioni di sabbia apparentemente irraggiungibili. Grotte, scheletri di mura e di edifici si confondono con le rocce in un intrico selvaggio di natura e manufatti. Tornando, decidiamo coraggiosamente di affrontare la salita che pare impervia, e di raggiungere le prime grotte. In effetti con qualche piccolo sforzo, eccoci all’altezza delle prime caverne di un villaggio spettrale. Sono molto belle, per lo più a cupola, devono essere caverne naturali originali ingrandite e abbellite per servire da stanza ai primitivi abitatori, e poi probabilmente ai monaci durante l’inverno. Ci sono nicchie per gli altari, e ampi spazi per dormire. Alcune pareti sono ancora annerite dal fuoco per l’indispensabile tè tibetano. L’entrata è stretta, l’interno ampio e arieggiato. Tra i muri di pietra e sabbia la temperatura doveva essere buona. Scendiamo soddisfatti da questa piccola intrusione in un mondo dimenticato. Non esiste più neppure un sentiero che conduca a questi luoghi.

Giovedì 17
Partiamo da Tholing con un programma un po’ cambiato. Prima di partire abbiamo incontrato un bizzarro ma simpatico personaggio di origine greca (circa un metro e novanta, cappello da esploratore e sorriso aperto) Conosce a menadito il Tibet, che esplora da solo, ed è stato a Mangnang e Dawa. (Chan pag.974, Dorje pag.425) Sconsiglia di andare a Dawa perché è stata a lungo occupata dai militari e pare non offra più nulla di interessante. Invece a Mangnang ci sarebbero pitture e un’ardimentosa scalata all’interno di grotte di cui parla anche il Chan. Decidiamo di saltare Dawa e di fermarci a Mangnang. Ci arriviamo dopo tre ore, uscendo da Tholing in direzione di Tsaparang, e seguendo una strada a sinistra dopo tredici chilometri. Seguendo i pali della luce, ci si inerpica su un lungo canyon pittoresco che porta all’altopiano, dove la strada è insolitamente bella. Dopo parecchi chilometri si ridiscende in un altro canyon, che sbocca in un’ampia vallata solcata dal fiume Mangnang, ampia e verde ma chiusa tra alte pareti di agglomerato e roccia, come quelle che chiudono il corso della Sutley.  La valle a sud è chiusa da picchi nevosi, con grandi ghiacciai. Là è il confine dell’India e il passo di Mana, da cui venne a Guge il Gesuita Andrade nel diciassettesimo secolo, e in direzione del quale i cinesi stanno facendo una nuova strada, ovviamente vietatissima ai turisti. Il posto è delizioso: un piccolo villaggio con rovine di grandi stupa e un tempio rosso, il grande letto del fiume vorticoso e grandi pascoli in cui pascolano decine di cavalli. All’entrata della valle, prima di scendere al villaggio, due chilometri più avanti e trenta metri più in basso, un gruppo di antichi chorten in rovina dai cui corpi sbrecciati escono o si intravedono centinaia di Tsa Tsa di varie dimensioni. I più grandi costituivano il centro dello stupa, impilati in cerchi concentrici a formarne il cuore. Al centro del villaggio, due grandi stupa: uno è sventrato e mostra il palo interno, l’altro è in condizioni migliori, e il pinnacolo finale  è identico a quello del Mandala temple di Yeshe-O a Tholing. Ma sembra che questa parte, curiosamente, sia nuova e sovrapposta al corpo antico. Di fronte al paese il fiume, attraversato da un grande ponte di ferro e al di là la ripida parete che trecento metri più in alto è traforata da centinaia di caverne, e da due piccole cappelle. Sappiamo che sono le famose cappelle che conservano alcune pitture, anche se, qui ci dicono, molto danneggiate dalle intemperie: Tucci parlava con entusiasmo di questi luoghi dei suoi templi e delle sue pitture in stile Ajanta. Purtroppo ora di templi non ne rimane che uno, che visitiamo nel pomeriggio. In un piccolo cortile, dalla porta bassa e scolpita, ha l’aspetto antico, ed è coperto da pitture che, pur avendo uno stile singolarmente naif, ci sembrano antiche e belle. Alcune divinità singolari, una divinità femminile piuttosto benevola che cavalca uno yak ci guarda dal piccolo gomkhang. Statua e pittura. Stupisce che, date le distruzioni intorno, il tempio possa essere stato almeno in parte risparmiato. Nell’insieme il posto è silenzioso, bello e tranquillo, anche se un rovescio di pioggia ci costringe in tenda per un paio d’ore. Il villaggio sta aspettando il monsone, e sinora pare l’acqua non sia arrivata. La serata è splendida, con una lunga passeggiata al fiume, ai chorten  sulla strada, e di nuovo al campo.  Dopo molta esitazione decidiamo di rinunciare alle visita alle rovine di fronte, che richiederebbero una intera giornata, e che ci dicono di difficile e pericoloso accesso, e di partire il giorno dopo per Thirtapuri. Cercheremo di rifarci a Kyunlung, dove pare ci siano rovine analoghe. Il tempo comincia a correre verso la fine del mese, e del viaggio.

Venerdì 18
Leviamo le tende da Mangnang (o Manam) in una giornata di sole: riusciamo a partire alle 8.45, (un record, sono poi in realtà le sette di mattina) dato che ci aspetta una lunga giornata di trasferimento. Saliamo sull’altopiano lungo la sassaia, in un lento ansimare del motore e dietro di noi il camion d’appoggio sembra un grosso insetto ronzante. Una breve illusione di strada buona sull’altopiano, e poi di nuovo giù per le strade sassose e saltellanti verso la Sutley e i canyons di Tholing. Ripassiamo Tholing con i suoi alberi svettanti, i suoi monumenti mescolati agli orrendi edifici militari, i suoi torrioni sabbiosi disseminati di caverne. Una sosta in una delle vallette inondate d’acqua che scorre veloce nei canaletti erbosi consente di scoprire un’ampia grotta bi-camera corredata di nicchia per l’altare e di cucina. Lasciata alle spalle la Sutley ci inerpichiamo tra i canaloni che riportano sull’altopiano cinquecento o seicento metri più in alto. E’ sempre uno spettacolo impressionante questa selva di pinnacoli deserti e assolati, con il rigagnolo in fondo e le pernici che attraversano la strada. Dalla cima guardiamo indietro verso questo strano mondo deserto e sabbioso che accompagna il corso argenteo del grande fiume che si getterà nell’Indo. Ci aspetta il solito interminabile, variegato altopiano con le sue lunghe pianure in cui la strada si inoltra (strada faticosa e corrugata, che rende arduo e faticoso il cammino della Toyota) per poi inerpicarsi alla fine sui passi per ridiscendere nella prossima valle. Ogni tanto una sorpresa di gazzelle che ci guardano incuriosite, qualche marmotta, le aquile che volano alte nel cielo, le bianche cime dell’Himalaya sullo sfondo, una grande sensazione di vuoto, di assenza, in cui ascoltare i propri pensieri. Passiamo due passi a cinquemila metri, ed ecco la lunga valle segnata dalla calce affiorante, popolata di tende nere e di greggi, prima dell’ultimo passo che riporta sulla strada principale (la sud del Kailash, Ali-Purang). Nomadi accampati vicino all’acqua, con i grossi cani neri che inseguono ostinatamente la macchina rischiando di farsi ammazzare. Poi dopo il passo, la cui strada era nuova tre anni fa e ora già mostra segni di dissesto, la discesa verso la high way e l’ex posto di controllo, dove ora non controllano più, ma c’è un grande edificio militare nuovo fiammante. Aspettiamo il camion che ha un ritardo di un’ora dovuto a noie meccaniche, e proseguiamo per Tirthapuri Un bel tramonto nel sole, ma nuvole minacciose sullo sfondo, che promettono pioggia o neve sul Kailash. Vediamo lepri, marmotte, e, con una certa emozione, un grosso lupo abbastanza vicino al villaggio di Montser, (o Munse), e ai suoi raggruppamenti di tende nere poco prima del villaggio. A Montser ci fermiamo per informazioni, il villaggio sembra ingrandito, affollato dalle tende bianche e blu dei mercanti: ripartiamo per la valle della Sutley, attraversando una serie di vallate aperte e ricche di coltivazioni e di pascoli. Dopo avere adocchiato speranzosi una bella valle a destra, svoltiamo a sinistra ed ecco Tirthapuri, un luogo santo molto importante per i Buddisti, un “luogo di potere”, in una corta gola improvvisa dove il fiume corre in una strozzatura tra le due colline che lo fiancheggiano. Arrivando, sulla sinistra, un fiorire di grotte, di piccoli templi e di stupa. Prima di inoltrarci nella piccola gola, ci fermiamo a guardare la sorgente solforosa che sgorga a cinquanta gradi lasciando bianchi depositi e formando piccole piscine dove si guariscono i reumatismi. Al di là della gola, dove la valle nuovamente si allarga un po’,  in riva al fiume che scorre veloce e rumoroso, piantiamo il campo. E’ tardi, e i nostri si danno da fare per preparare la cena nel forte vento che si infila nella gola.

Sabato 19
ci svegliamo con la necessità di fare delle scelte. Il  tempo stringe, e bisogna scegliere, o Khyunglung o il Kailash. Per Kyunglung la curiosità di un posto nuovo e pianificato, ma ci vogliono i cavalli e occorrono due o tre giorni. Per il Kailash la sfida personale di superare il Dolma la, ma siamo già stati al Drira Phuck e rischiamo di trovare tempo pessimo. Inoltre siamo piuttosto giù di forma e rischiamo di dover tornare indietro. Decidiamo per Kyunglung con qualche rimpianto: il Khailash è sempre un obiettivo importante. Alle 9,30 iniziamo la visita di Tirthapuri. E’ un luogo di interesse prevalentemente religioso, ogni metro è ricco di riferimenti alla Dea Dorje Phagmo e alle sue meditazioni, a Padmasambhava che qui ha meditato, e ogni pietra, ogni roccia, ogni angolo del terreno è trasformato in un simbolo delle divinità e dalla lotta, in tempi molto remoti, tra divinità protettrici e spiriti malevoli. Ecco la roccia che contiene lo spirito malevolo decapitato da Padmashmbava, ecco le roccie rosse che simboleggiano le montagne sacre, la rappresentazione del Manasarovar in una grande piscina di rocce. La guida è nel suo elemento (accompagna spesso gruppi di religiosi Buddisti) e ci descrive ogni roccia con dovizia di particolari, e storie spesso fantasiose. Il piccolo tempio in alto sopra le rocce è nuovo, e contiene riferimenti e reliquie di Padmasambava, le pareti foderate di stoffe ricamate ne riproducono l’effigie. In un angolo le statue di Marpa e Milarepa con curiose acconciature di capelli neri, fatte circa venti anni fa. In basso il piccolo tempio a picco sulla Sutley custodisce una caverna dove il Guru Rimpoche meditava. Un tempo custodiva tesori, rubati durante l’invasione Kazaka del 1941. Rimangono le reliquie, le pietre che recano l’impronta del Guru e della sua consorte, e bianche conchiglie. Faccio il giro della Kora e guardo dall’alto gli yak che guadano il fiume profondo, con l’acqua che quasi li copre. Roberto mi dirà che un piccolo ha rischiato di essere trascinato via. Forse questa immagine mi è rimasta a giustificare il terrore di guadare lo stesso fiume tra qualche giorno. Andiamo a bagnarci i piedi e le gambe nelle sorgenti solforose, con qualche difficoltà perché l’acqua scotta.
Dopo si parte per Gurugam (Chan pag. 969, Dorje pag. 423-24) a pochi chilometri di distanza, e base di partenza per Khyunglung. Si attraversa una grande valle aperta voltando a destra e seguendo il fiume, si costeggia una serie di colline, e si entra in un’altra bella valle aperta, percprsa dalla Sutley. Ci sono pascoli verdi per i cavalli, e, sovrastanti il fiume, sulla sinistra, alti contrafforti rocciosi di colore rossastro. A destra in una spianata sassosa oltre i pascoli, un grande monastero bianco circondato da un muro perimetrale molto ampio, punteggiato di stupa e, a mezza costa sul fianco della erta parete rocciosa che chiude la valle da quel lato,  un altro piccolo monastero antico a mezza costa, e parecchie caverne alcune delle quali evidentemente abitate. Il monastero è il maggiore centro Bon del Tibet occidentale, e il tempio nasconde la grotta di Drempei Namka, un lama noto per la sua abilità di medico e morto ai primi del novecento. Tutta la zona della Sutley è ricca di caverne, sicuramente saranno state il rifugio di popolazioni molto antiche e dovremmo ritrovarne in abbondanza a Khyunglung. Purtroppo i cavalli domani non saranno disponibili, e dovremo sostare qui un giorno in più. Ci prepariamo quindi a un pomeriggio di riposo, o di ozio, e rimandiamo a domani la visita del monastero. Vado a fare una passeggiata verso la Sutley, esplorando i meandri che si infilano tra le gole in fondo alla valle, chiusa dai passi che portano a Khyunglung. Al di là dei prati verdi il greto aspro, poi ancora preti verdi,  in fondo al pianoro il sentiero si fa stretto tra il fiume che corre su rapide veloci e spumeggianti, e le rocce aguzze che precipitano sul fiume. Una piccola mandria di cavalli bradi pascola in riva al fiume e mi lascia passare con qualche timore. Seguo alcune anse del fiume che sempre più spesso è interrotto da rapide,  e poi torno indietro quando il passaggio diventa troppo difficile. Ecco perché non si può andare a Khyunglung lungo la Sutley, evitando faticose arrampicate. Le rive sono una infinita variazione di pareti rocciose in vari stadi di disfacimento, e farebbero la gioia di un geologo o di un mineralologo. Raccolgo un bellissimo sasso (dentro all’involucro di roccia grigia ci sono tanti strati di colore diverso con al centro una farcitura  bianca, come una torta) che porterò a Roberto perché forse merita una fotografia. Scende la sera, e arriva il vento forte e fastidioso, che durerà fin oltre il tramonto. Speriamo il tempo non si guasti: oggi alle tre ha piovuto per un’ora, poi è tornato un sole caldo e forte.

Domenica 20
Giornata di sole anche se il mattino è freddo e umido. Alle 10 (la nostra guida Jigme è un incorreggibile dormiglione che si addormenta sempre in macchina, figuriamoci quando può alzarsi tardi) ci avviamo a visitare il monastero, adagiato ai piedi della parete bucherellata dalle caverne e dalla macchia colorata del vecchio tempio, o meglio della grotta di meditazione di Drenpei Namka. Il monastero è nuovo (1989-91) ma descritto come un importante monastero Bon, legato alla sede di Dolanji in India (Dorje pag. 404). In effetti il layout è strano, con un grande muro perimetrale, in cui  a intervalli sono inseriti stupa-cappelle pieni di tsa tsa, molto rudimentali a dire il vero,  che vediamo a centinaia seccare al sole davanti a una casetta accanto al muro di cinta. Il monastero ha l’entrata sopraelevata di qualche gradino, poi un portico con due ali laterali in cui che invece delle statue dei protettori sono inseriti  due grandi mulini da preghiera che ruotano in senso contrario. Le pareti del portico come quelle del Dukhang sono tappezzate di stoffa con le immagini ricamate di Sakyamuni (?) e di divinità Bon. Sul frontone del tempio all’esterno, gazzelle (ma mi dicono che non sono le gazzelle della predicazione, ma altre) ruota del Dharma e una grande svastica Bon levogira. Entrando nella sala delle adunanze, da due colonne all’entrata pendono due grandi pelli, un giaguaro delle nevi e un lupo dal pelame fulvo. Il monastero è molto pulito, ben tenuto, decorato da moltissime tangka nuove di divinità Bon. La korlam, dove il senso della circolazione è invertito nella visita in cui ci accompagna il custode, ha una lunga vetrina con moltissime statue di divinità Bon e una collezione degli oggetti più svariati, tra cui un bellissimo dorje antico a otto anelli, più uno (le nove vie del Bon?). Ritornando nella sala, vediamo che anche l’altare esibisce una collezione di oggetti, tra cui una bella statua in bronzo di Sakyamuni, piuttosto grande, con grandi petali di loto e una bella patina. Ma ci sono anche vasi, due belle tazze di giada, orrende ceramiche moderne, cartoline, trombe e conchiglie. Provo a chiedere alla guida Gelupka cosa pensa del Bon, ma le spiegazioni sono piuttosto vaghe. Il fatto di non condividere Sakyamuni come tutti gli altri ordini, pare comunque costituire una differenza rilevante. Proseguiamo all’esterno per la grotta di Drenpei Namka, una fuga di scalini ripidi, poi un tunnel con alti scalini scavato nella roccia, e, in mezzo ai festoni e bandiere di preghiere, ecco l’entrata a una grande caverna, chiusa in un’anticamera in muratura con una finestra che guarda nella valle. E’ zeppa all’inverosimile di oggetti di tutti i tipi, tappezzata di tangka e di stupa appartenuti al lama, di medicine, rosari, collane una indescrivibile quantità di ciarpame affiancata a oggetti di culto, talora belli come un gau di pregevole fattura. Su un altare un bellissimo bronzetto probabilmente indiano di circa 18 cm. su un grande loto rilevato dalla linea elegante. Forse Gupta, certamente non tibetano che risplende in mezzo a modeste cose moderne. Usciti dalla caverna un sentiero aereo e nell’ultimo tratto una semplice pedana di venti centimetri sospesa nel vuoto conducono a una grotta – abitazione, protetta da un finestrone in legno: è la camera per ospiti importanti, che sicuramente non devono soffrire di vertigini. Scendendo, andiamo a visitare un gruppo di chorten in rovina, probabilmente il luogo dove un tempo sorgeva un monastero. Il pomeriggio è dedicato al riposo, ma proverò a fare una visita a rovine che si intravedono poco lontano sul fianco della collina. Il sole del primo pomeriggio è infernale, e sotto le tende si cuoce. Finisco per riposare fuori, sullo stuoino impermeabile riparandomi dal sole con l’ombrello. Alle 4.30 riparto per il mio giro, salendo al di sopra dei chorten. Trovo le mura di un edificio distrutto dai Kazaki, sembra un monastero o un convento. Dietro, addossato alla roccia della parete, una ampia sala mostra le mura perimetrali protette dal roccione, e una fila di decorazioni floreali all’altezza del soffitto che ora non c’è più. Fuori bandiere di preghiere indicano che si trattava di un luogo sacro. Mi infilo in un canalone per evitare il vento che si è fatto forte, e raggiungo la cima del contrafforte roccioso in cui sono alloggiati il tempio e caverne di abitazione dei monaci. La vista è molto bella, ma il vento rabbioso mi invita a infilarmi nuovamente nel canalone e scendere al campo, dove chiacchiero con Roberto fino all’ora di cena. Il vento continua, la tenda mensa è ancorata ma si scuote, e ci sono nuvoloni neri sul Kailash in lontananza verso nord. Ci prepariamo per la notte in questo mondo decisamente irreale.

Lunedì 21
Al mattino alle otto e mezza arrivano i cavalli. Sono due modeste cavalcature, una cavalla bianca dall’aria affidabile, e un più modesto cavallino marrone condotti per la cavezza da un giovane stalliere tibetano che ha tutta l’aria di un siciliano con la coppola di traverso. Solo è molto più abbronzato, e sorride di continuo. Pensavamo a un convoglio di cavalieri, ma capiamo presto che è meglio così. Ci avviamo verso i monti sassosi che chiudono la valle verso ovest, e che sembrano verdi, ma che si riveleranno una scoscesa pietraia cosparsa di rari fili d’erba. A cavallo si sta malissimo: la sella è di legno e molto approssimativa, le staffe corte e l’equilibrio estremamente instabile, con la sella che sembra sempre cadere di lato. A due terzi della salita i cavalli sono stanchi, e proseguiamo a piedi. Da questo momento preferirò andarmene a piedi anche se la salita è faticosissima. Meglio la fatica del cavallo, e dopo tutto questo è un ottimo allenamento. Superato il primo rilievo si vedono altre creste e una mezza costa a strapiombo sui meandri della Sutley che scorre veloce e fangosa trecento metri più sotto. A poco a poco percorriamo la mezza costa, inerpicandoci verso il primo passo vero e proprio. Qualche lepre, e all’orizzonte, quando siamo quasi in cima, comincia a spuntare il triangolo appuntito di una cima innevata. Potrebbe essere il Nanda Devi, o per lo meno ci piacerebbe, dato che la guida lo nega. Dopo il primo un secondo passo, sempre non molto alto: siamo sui 4500 metri e si comincia una vertiginosa discesa verso la Sutley che vediamo da una punta rocciosa scorrere tumultuosamente nel canyon in basso. Da qui si vede Khyunlung, che pare ancora enormemente lontana: un villaggio basso, con molte case e campi coltivati in una piana che si allarga con la Sutley che scorre accanto allargandosi per la poca pendenza in una ventina di fili argentei. Un piccolo monastero bianco si staglia su una collinetta poco distante dal villaggio. Ben presto realizziamo che si prospetta un problema molto preoccupante: pare si debba guadare la Sutley che, arrivati sulla riva, ci appare un enorme fiume minaccioso. Cerchiamo di fare resistenza, ma non c’é niente da fare. Armeggi vari con i cavalli, si toglie il carico, poi la guida parte e attraversa, con l’acqua che bagna la pancia del cavallo. In realtà la cosa fatta da lui pare abbastanza semplice, ma per noi è terrorizzante. Alla fine lo stalliere mi ficca sul cavallo bianco che è più alto, lo prende per la cavezza, e mi fa entrare nel fiume. Mi aggrappo alla sella, e cerco di non pensare. L’acqua rumoreggia, arriva alle scarpe, ma dopo un po’ sono sull’altra riva, con la sensazione di essere sfuggito di poco alla catastrofe. A poco a poco passano tutti, e dopo un picnic sulla riva ci rimettiamo in marcia. Ma dimenticavo un episodio commovente: scendendo dal secondo passo verso il fiume, a una svolta, ecco da una roccia si stacca, con una goffa andatura un bellissimo tetraonide della dimensione di un piccolo cedrone e dal piumaggio dorato. Tiene un’ala allargata che striscia per terra, come fosse ferita, e ci attraversa la strada per un lungo tratto. Più in là, capiamo: una nidiata di cinque pulcini sta cercando di nascondersi, e scappa in tutte le direzioni. E’ una nidiata di piccolini e la madre inscenava la commedia del ferito per allontanare il pericolo dai piccoli e attirarlo su di sé.
Dopo una diecina di chilometri sempre vicino al fiume ma disegnando un itinerario diritto, arriviamo a Khyunglung. La vallata è ampia e coltivata, circondata da basse colline, alcune delle quali più aspre e traforate da grotte. Più avanti il fiume si infila nuovamente tra alte coste rocciose, e un ponte lo attraversa all’altezza del vecchio monastero, purtroppo distrutto e di cui non rimane altra traccia che una spianata e una selva di bandiere di preghiera. Sopra il fiume in quel punto ci sono caverne descritte da Tucci e forse cappelle nascoste tra le rovine. Ma i cavalli sono stanchi, non ne troviamo altri, e ci vogliono due ore a piedi. Rinunciamo un poco vigliaccamente, e andiamo, invece, nel vento regolare e fortissimo delle belle giornate, a visitare il piccolo gompa Gelupka costruito vicino al villaggio sopra una collinetta oltre i campi coltivati. E’ grazioso, con molti mani scolpiti e mura ornate da centinaia di corna, ma contiene pochi oggetti interessanti, copertine di legno per lo più, che provengono dal vecchio monastero distrutto. Pare rimanesse da quel monastero una antica e bellissima statua, ma è stata rubata nel 98 dai soliti ladri su commissione dei mercanti d’arte. Pure nel 98, la stagione di piogge fortissime ha fatto crollare una delle caverne di fronte al villaggio, con belle pitture. La sera siamo ospiti di una bella famiglia tibetana. Il capofamiglia ha cinque cavalli che vuole in parte trasformare in pecore (10 pecore per un cavallo) tenendone uno che in genere è uno status symbol per le genti di queste parti, e soprattutto per i nomadi. Nell’andata avevamo cercato di capire con Roberto i prezzi degli animali domestici, arrivando alla conclusione che il valore di uno yak normale è sulle 800.000 lire, un cavallo circa 500.000 una pecora 80.000. Là il rapporto pecore – cavallo era uno a cinque. La moglie è una bellissima donna, gestisce la locanda locale, non sta ferma un momento, e ha dei bei campanellini attaccati alla cintura. Ha cinque figli, alcuni studiano a Montser, la più piccola si fa coccolare da madre, padre e …nonna che arriva insieme a una folla di avventori che socializzano anche con noi. Ci preparano due letti in una piccola stanza adibita a magazzino, piena di polvere ma silenziosa.
La sera la Sutley è del colore della cioccolata, e il tramonto dolcissimo anche se il vento non cede. Si dorme un po’ a fatica per l’odore e un po’ di claustrofobia, ma si dorme. Penso alla strada di ritorno che ci aspetta e sembra impossibile rifare subito tanta fatica.

Martedì 22
Come il solito all’ora stabilita per la colazione Jigme dorme, ma una volta sveglio si mette in moto con efficienza. Assistiamo al risveglio e alla colazione della famiglia tibetana, ospiti e padroni di casa dormono nello stesso stanzone che funge da locanda, su due lati sono stesi i letti coperti da tappeti e da trapunte, su un lato un altare con una serie di immagini sacre di divinità chiaramente Gelugpa , ma sul soffitto è disegnata una svastica Bon. Il padrone di casa esce dal suo giaciglio, si fa dare ago e filo e tra una tazza di tè e l’altra ripara il golfino della figlia, poi si dà al perfezionamento di una cavezza non priva di eleganza. La padrona di casa si dà da fare e prepara la colazione a tutti, distribuisce catini di acqua calda per lavarsi, mentre noi facciamo colazione con tè e biscotti. Arriva la nonna, si sveglia la piccola, la madre le dà il seno (molto in ritardo, la piccola sembra avere almeno due anni) e la coccola. Alle nove partiamo, e si comincia ad andare, e a lasciare i chilometri dietro le spalle. Arriviamo alla Sutley e si ripete la scena della vigilia. Anche questa volta mi sento in salvo per miracolo, ma l’emozione è meno grande, ci si abitua a tutto. Poi si sale, sempre credendo di non farcela, ma ecco il primo passo, il secondo, la discesa dal contrafforte pietroso, ecco lontani i puntini blu dell’accampamento, con le tende, il camion, la cucina. Siamo molto stanchi ma la giornata bellissima consente lavaggio, riposo, e qualche ora di distensione. In realtà ora comincia la marcia di ritorno, abbiamo ancora un paio di giorni tra Tarpoche e Manasarovar, poi sarà una lunga corsa verso Kathmandu. Fuori pascolano gli yak e alcune decine di capre. E’ un po’ come essere in un’oasi sulle rive della Sutley. Questa valle deve essere sacra, non ci sono nomadi, non campi coltivati. Solo i grandi pascoli verdi e alcune greggi e i cavalli che la notte nitriscono vicino alle tende. Probabilmente le terre sono del monastero, solo i monaci vivono qui e le greggi appartengono a loro.

Mercoledì 23
Altra bella mattina: lasciamo Gurugam nella solita pace, con la vallata verde percorsa da mandrie di cavalli ma da pochissimi pastori. Saluto la Sutley che scorre veloce, una papera si infila nella corrente e scende a valle come una vettura da corsa. Percorriamo in fretta la vallata che ci riporta a Muntser, piena di nomadi ma anche di campi coltivati. Le donne si fanno sulla soglia delle tende a vederci passare, con i bambini più piccoli in braccio, i cani abbaiano e qualche volta ci inseguono, i cavalli legati alle loro funi si imbizzarriscono e suscitano un po’ di scompiglio. E’ un quadro fuori dal tempo, ma quanto potrà durare? L’amico Roberto è pessimista, è certo che ogni anno questo Tibet cambia per scomparire pezzo a pezzo. In realtà le società evolute hanno sempre scoraggiato il nomadismo, e talvolta la vita di queste persone è così dura che augurarsi la continuità può sembrare un capriccio snobistico. In realtà molti di questi nomadi non sono poveri, la libertà è per loro un valore immenso e quanto la civiltà tecnologica offre in cambio non è sempre così attraente. L’importante è che siano loro a scegliere, e che questi altipiani non vengano trasformati in una sorta di riserva indiana. In ogni caso qui altre forme di economia sono difficilmente ipotizzabili. Dopo Muntser, affollata di tende bianche e blu, ricco mercato che trabocca di mercanzie, imbocchiamo nuovamente la grande strada Ali-Purang, che seguiremo fino al Kailash e a Saga. E’ un’altra serie di vallate immense, chiusa da un lato dal Kailash range, e dall’altra parte dal confine indiano e nepalese e dalla catena dell’Himalaya. I chilometri scorrono veloci perché il fondo è discreto: incontriamo un branco di gazzelle che ci guarda con curiosità, il tempo di una fotografia, poi si allontana veloce. Ecco profilarsi il massiccio imponente del Gurla Mandata con il suo enorme ghiacciaio sospeso che pare una immensa fetta di torta candida. A poco a poco si scopre il Kailash che era nascosto tra le nuvole, pare volerci offrire in regalo la visione del suo manto scintillante, della grande svastica della parete sud, dei suoi custodi dai nomi sacri. Tutta la vallata della montagna sacra si apre, ecco Darchen, con le sue cento tende, e l’imbocco della parikrama, con la strada che porta da Darchen al Tarpoche. Sento un rimpianto acuto per allontanarmi senza avere percorso la parikrama, adesso con il sole e il Kailashh scoperto il Drolma la sembra a portata di mano, ma non c’è modo di cambiare il programma. Non rimangono abbastanza giorni e noi siamo stanchi. Questa valle esercita comunque una attrazione speciale, che non ho provato da nessuna altra parte in Tibet. Ci dirigiamo al Chiu Gompa, che appare poco dopo in tutto il suo fascino, a picco sul lago, con la distesa del Manasarovar di un blu intenso che riflette il cielo con poche nuvole bianche. Scendiamo alla riva del lago, e traversiamo il canale che un tempo univa i due laghi, ora scorre solo un rivolo in mezzo alle incrostazioni bianche delle sorgenti solforose. Ci portano al villaggio, con le sue acque termali in riva al canale, ma il posto, chiuso e polveroso, ronzante di insetti, non ci piace. Decidiamo di andare ad accamparci più lontano, sull’altra riva, nelle vicinanze del monastero di Seralung che potremmo vedere domani. Ancora molti chilometri ci portano a Hor, un posto orrendo in una buca del terreno con il posto di polizia e case di fango. Ma appena ci allontaniamo, portandoci sulla riva sinistra del lago e il luogo ridiventa incantato. Ci accampiamo quasi in fondo alla riva, dove un torrente sfocia nel lago poco più avanti, e porta acqua fresca. Davanti a noi vediamo tutto il lago rotondo come il sole, a destra il Kailash è visibile per un buon terzo, e a sinistra si alza il Gurla Mandata in tutta la sua gloria. Il lago luccica come una cascata di gioielli. Con Roberto ci avviamo in un giro di esplorazione per cercare il monastero, ma è troppo lontano, il sentiero sabbioso e faticosissimo, e dopo alcuni chilometri desistiamo. Serata pacifica al campo, nel sole del tramonto. Vicino a noi si accampano un gruppo numeroso di pellegrini indiani, probabilmente di ritorno dalla montagna sacra. Faranno chiasso tutta la notte, come sempre queste comitive. Decidiamo questa sera di anticipare il ritorno a Kathmandu, un giorno in più serve a Roberto che ha alcune compere da fare, e i tre giorni di margine per il rientro ci paiono pericolosamente al limite. In realtà siamo stanchi e cominciamo a sentire voglia di ritorno. Comunque la serata è bellissima, e penso a tutti questi momenti passati in luoghi senza tempo, attorniato da paesaggi solitari, superbi, solenni. E’ la fatica a vincere dopo un po’, o la voglia dei propri cari, o la difficoltà comunque di trovare mai un equilibrio perfetto dovunque uno sia.

Giovedì 24
Partenza all’alba (nove meno un quarto) per una tappa che si preannuncia molto lunga. Lasciamo il lago blu con una cortina di nubi che finisce per coprire sia il Kailash che il Gurla Mandata. Questi però ci ha regalato alle prime luci una bellissima inquadratura della sua vetta incendiata dal primo sole. Non ho dormito, forse per il chiasso degli indiani e ho già sonno. Lasciamo la grande pianura del Manasarovar, e scendiamo dal primo piccolo passo. I fiumi vanno ancora ad occidente, e alimentano il sistema dell’Indus. Vediamo qualche gazzella nelle prime valli, deserte nonostante questa sia la strada principale che collega Ali a Purang e a Lhasa da occidente. Valli strette prima, poi sempre più ampie. Saliamo al passo del Mayum la con i suoi cinquemila metri e in cima incontriamo una toyota di turisti tedeschi e giapponesi che rincontreremo più volte: tornano a Lhasa, sono stati al Kailash. Le cime intorno sono tondeggianti, e danno l’illusione del verde. Si scende per una lunga valle e finalmente si incontra il primo braccio del Bramaputra che scorre a oriente, una serie di argini artificiali, un grande ponte. Lo lasciamo per ora a sud per seguire la strada principale. Dopo il fiume, le pianure a nord sono sabbiose, e ci sono segni di vita solo dove c’è acqua. Le pianure si allargano in modo straordinario, sono delimitate a nord dalle cime del Transhimalaya (il nome dato loro da Hedin), a sud da quelle alte e innevate dell’Himalaya. Pianure enormi, di settanta, ottanta chilometri dove c’è l’acqua si affollano mandrie di yak, di cavalli, di pecore. Avanziamo verso la nostra meta, la strada, pessima, comincia a essere costellata di scheletri e anche di carcasse mummificate dal clima secco del Tibet. Sono le vittime delle grandi nevicate del 97 e delle inondazioni del 98, che hanno fatto strage di greggi con grave danno per l’economia nomade. La nostra guida che ama la musica, ci racconta che a Lhasa hanno fatto spettacoli musicali di raccolta fondi per i nomadi. Ritroviamo lo Tsangpo e il ponte con il posto di controllo militare. Subito dopo Horpa, e poi Pariyang, la nostra meta di questa lunga tappa. Anche qui molta sabbia, ma la pianura è costellata di punti d’acqua e di greggi. Per la fatica, e per l’opportunità, ci installiamo allo Yak Hotel, uno straordinario caravanserraglio in stile tibetano, dove si affollano i pellegrini, in prevalenza indiani, diretti al Kailash o di ritorno dal pellegrinaggio. L’hotel, come si chiama con orgoglio, ha una ampia corte su cui si affacciano molte grandi stanze, una porta dà su un lungo corridoio che porta a un secondo più protetto cortile dove oltre a grandi pile di dung secco si trovano un profondo pozzo con acqua potabile, e una veranda con ampia sala da pranzo, cucina e altre stanze in una delle quali troviamo alloggio. Musica tibetana risuona fragorosa ma fortunatamente ancora per poco. Nonostante i timori, la serata scorre tranquilla. Si cena nella vasta sala da pranzo (provvista comunque di letti per gli ospiti in soprannumero) e poi ci si barrica nelle camere dalle pareti di fango dipinto e dal pavimento come sempre in terra battuta, ma calde e riparate.

Venerdì 25
Sveglia dopo una notte inquieta (non riesco a dormire nonostante il letto abbastanza morbido), con il gallo che si ostina a dare la sveglia per ore. Partenza come al solito alle nove, e via nella vasta piana d Pariyang, una grande distesa sabbiosa, rotta dal verde della solita erba rada dell’altopiano. Per due o tre ore siamo in un paesaggio in cui impera la sabbia, e si costeggiano dune a volte imponenti, di sabbia finissima. Contrastano in modo curioso con le pianure verdi e le montagne verdi e grigie rotte qua e là dai filoni di roccia scura. Saliamo su un passo, ecco l’acqua blu di un lago, e poi si riprende l’alternarsi infinito di grandi valli contornate di cime tondeggianti. Rompe infine il paesaggio il Bramaputra, largo, possente a interrotto a tratti da rapide. Lo costeggiamo con gioia per un’ora o due, poi si cambia di nuovo. Le rive sono costellate di stupendi fiori viola che riempiono interi tratti di prato o la riva del fiume. Abbandonato lo Tsangpo, si attraversa un terreno deserto con dune basse e strada difficile, nonostante il fuoristrada. Si passano fiumi anche grandi, ora ci sono molti ponti anche in confronto alla situazione di pochi anni fa. Si fa colazione a Dongpa, un villaggio fantasma, con un monastero Gelugpa in rifacimento e uno stupa all’ingresso del villaggio. Molte case sono state abbandonate, sia dai militari che dai civili, e quasi tutte sono scheletri vuoti, orribili da vedere. Abbiamo visto poco fa la nuova Dongpa, a qualche chilometro da qui, in fondo a una vallata laterale, dove pare ci sia meno sabbia e un clima migliore: tuttavia la vecchia Dongpa è sul passaggio dei pellegrini, sono rimasti alcuni punti di ristoro e un pretenzioso albergo per pellegrini, l’Inaret Strand Hotel. La locanda dove ci fermiamo a pranzo ha una piccola guest house appena finita, con muri di fango ma civettuole fodere di stoffa alle pareti e tavolini bassi colorati. Cani e gatti abbastanza di buon carattere ci aiutano a finire la colazione al sacco.
Le valli si fanno più strette e le montagne più alte. Ci infiliamo in una stretta valle molto bella, percorsa dopo pochi chilometri da un affluente del Bramaputra, che viene da nord. A due terzi della valle, nel punto più stretto le rovine di un castello (o di un forte?) con due torri angolari e lunghe mura. Sullo sfondo una bella catena di montagne che fanno parte del Transhimalaya, con nevai, ghiacciai e alte pareti di roccia. In un’aria di pioggia (che fortunatamente non cadrà) campeggiamo con sorpresa nell’identico posto dove ci siamo fermati quattro anni fa a pochi chilometri da Saga, una cittadina piuttosto brutta, dove domattina lasceremo la strada di Lhasa, via Lhatse, per infilarci nella bretella del Paiku tso. Questa “scorciatoia” taglia a sud est per il confine nepalese, per incontrare la “friendship highway” che viene da Dingi all’altezza del passo di Lablung la.
E’ stata una lunga giornata di 245 chilometri, con pochi avvistamenti di gazzelle, ma abbiamo avvistato due belle gru, che si sono lasciate fotografare. Grandi greggi (più di ieri) e pochissimo traffico. Durante la giornata abbiamo incontrato tre camion e la solita toyota del Mayum la che rincontriamo a Dongpa.

Sabato 26
Mi alzo dopo una notte di poco sonno, e con un gran freddo. Migliorerà dopo poco, ma intanto si rabbrividisce, in attesa di smontare il campo e di partire. Tutto accade con la solita efficienza, e verso le nove ci si avvia: qualche chilometro ed ecco Saga o Kyakyarn una orrenda cittadina dall’attività edilizia frenetica, con una piccola via – mercato su cui si aprono tutte in fila le botteghe tibetane, e grandi edifici militari e civili della amministrazione cinese. All’ingresso della città la tenda colorata di un americano apparentemente importante con moglie cinese attrae molta folla. Lasciamo Saga alla nostra sinistra prendendo la via per il Pelku tso, (Dorje pag. 376-377 e Chan pag. 931-927) e arriviamo sulla sponda del Bramaputra, splendido e maestoso che si apre la strada nella vallata ampia, a perdita d’occhio. A due chilometri il traghetto, e torniamo in un Tibet più tradizionale, senza ponti, e dove l’attraversamento del fiume prende circa un’ora, due mezzi e un po’ di cavalli e cavalieri per volta. L’attraversamento offre scene colorite, cavalli che non vogliono saperne di salire, asini carichi e mansueti, famiglie con cani al seguito legati al guinzaglio. Il traghetto è ancorato a una grossa fune di ferro ancorata a terra, il barcone sfrutta la forza della corrente rimanendo agganciato al cavo. Dall’altra parte seguiamo il fiume per qualche chilometro, poi ci inoltriamo in una serie di valli belle e ricche d’acqua. Moltissime tende nere, greggi, una parte di Tibet popolata e ricca di vita. Passiamo un lago (Tso Drolung) e un alto passo, il Ma la , più di 5000 metri, da cui si gode una bellissima vista. Ancora valli più desertiche e si scende in un canyon dalle stranissime pareti bucherellate: la strada segue come al solito il letto stagionale di un torrente, e dal canyon sbuchiamo in una immensa pianura con al centro il Pelku Tso, un lago dalle acque color cobalto, in cui confluiscono da sud le acque di due fiumi che scendono dai ghiacciai, il Da-chu e il La-chu. Pare che sull’altra riva ci sia una grotta in cui ha meditato Milarepa, ma la immaginiamo soltanto. A ovest una bella catena di ghiacciai, grandi cime che debbono superare i 6500 metri. Dovremmo vedere un grande ottomila tibetano, il Shishapangma, ma tutte le cime sono coperte e non siamo sicuri che sia proprio da queste parti. Pranziamo in riva al lago, a sud il tempo è coperto, ma qui il sole fa risplendere le acque del lago e il luogo è silenzioso e deserto: il monsone sta importando acqua dall’India, e dal Nepal. La strada oltre il lago è una pista sabbiosa faticosissima, con grandi nuvole di polvere che entrano da tutte le fessure, e un caldo opprimente. I nostri vorrebbero fermarsi per timore della pioggia, ma sono solo le due e insistiamo per proseguire. A un tratto la strada è sbarrata da un cancello, e in questo deserto un improbabile funzionario regionale riesce a estorcere 100 yuan alla guida per un pedaggio che sicuramente non è dovuto: ne voleva 500 (circa 100.000 lire). Scendiamo un poco in una valle sassosa, e ci accampiamo in riva a un bel fiume. Il campo è piantato da poco quando si mette a piovere. Dura un’ora e torna il sole, ma anche il solito vento della sera piuttosto fastidioso. Penso che questo è l’ultimo giorno di tenda, domani saremo a Nyalam e poi a Zagmu, al confine con il Nepal. Guardo a lungo questi orizzonti strani, questi panorami che non stancano mai per la loro bellezza, questa natura così selvaggia, grandiosa, isolata, anche se dura e difficile. Tra due giorni tutto sarà un ricordo. Questi luoghi sono difficili da conquistare e da sopportare, ma sono unici al mondo. Da più di un mese siamo ad altitudini tra i 3600 e i 4900 metri, si respira male, non si dorme, si vive in tenda e non si mangia. Ma quante centinaia di chilometri di stupefacente opera della natura, quanta luce, arte, interesse, quanta bellezza.

Domenica 27
Ci svegliamo con un cielo plumbeo e un freddo intenso dopo una notte mediamente irrequieta. Penso con sollievo che è l’ultima notte in tenda a 4600 metri. Partendo, il cielo si libera a nord, ma verso sul la cortina è impenetrabile. Saliamo a 5000 metri e ci infiliamo in una serie di vallette tra le colline, con la rara visione di qualche gazzella che scappa. Le grandi montagne alla nostra destra sono quasi del tutto coperte, vediamo soltanto qualche riflesso dei ghiacciai. Improvvisamente, tra le alte colline che toccano il cielo, incrociamo una pista che va verso sud. Abbiamo tagliato l’altopiano e raggiunto la “Friendship Highway” che da Lhasa porta a Zagmu via Shigatse – Lhatse. La scorciatoia (si fa per dire) ci porta a sud del Lalung la, evitando il passo. Nessuno direbbe che questo incrocio di piste polverose a cinquemila metri è un importante nodo stradale. Lentamente saliamo sul Yakrushong la o Nyalam Tong la (5.200 metri Dorje pag. 374) e dal passo l’altopiano del Tibet si stende infinito alle nostre spalle. Di fronte immense montagne, di qui ci sarebbe una vista mozzafiato se il monsone non avesse invaso le cime. In effetti vediamo solo alcuni grandi contrafforti rocciosi, e un sospetto di grandi nevai tra le nuvole. Il passo è ampio, e le preghiere sventolano da alti pali che formano una grande porta aperta sull’Everest e sul Shishapangma. Il freddo è intenso nonostante la giacca a vento imbottita. Nel grande braciere cerchiamo con difficoltà di bruciare l’incenso comprato a Ganden, e che non abbiamo ancora usato. E’ un po’ l’addio al Tibet: da questo punto inizia la discesa vertiginosa dall’altopiano, dai cinquemila duecento metri del passo ai mille trecentosettanta di Kathmandu. Rinunciamo ad aspettare una schiarita poco probabile nel monsone che sale dal Nepal, e cominciamo a scendere. Ci si immette in una grande valle che scende inesorabilmente in grandi tornanti. Poi in un canyon largo, con molte valli laterali e piccoli paesi annidati qua e là. Con il diminuire della quota, crescono le coltivazioni, e i prati verdi e la colza gialla. Al margine della strada ci fermiamo per visitare il monastero di Pengyeling, cui si accede scendendo verso il fiume (è il Matsang Tdanpo, il fiume Sunkosi, che ci accompagnerà a lungo) che rumoreggia in basso, nella valle coltivata, popolata di case fitte. A mezza costa una macchia di case, in gran parte abitazioni di monaci, la grotta e il monastero. La grotta è la caverna di Namkading, uno dei romitaggi di Milarepa, il santo più venerato del Tibet, nato a Kyrong, non molto lontano da qui. E’ molto suggestiva nel buio e nel silenzio del piccolo romitorio, ma abbiamo dimenticato le torce e si vede poco. Il piccolo tempio è stato ricostruito nel 1986 e contiene cose banali. Ci rimettiamo in marcia fino a Nyalam, una piccolo villaggio di frontiera abbarbicata alla valle stretta, dopo il ponte alto sul fiume. Ci fermiamo per pranzare, e aspettare il camion che ritarda, allo Snow Lion restaurant, con annesso albergo dall’altro lato della strada. Il proprietario ha finanziato con i suoi guadagni una bella scuola parificata per i bimbi tibetani della valle, che abbiamo visto più in alto. Comincia a piovere, la valle si fa stretta e la vegetazione si arricchisce sempre di più sino a diventare alpina, ricca, umida, invadente. Per Zagmu ci sono trenta chilometri, ma sembra una discesa agli inferi. La valle precipita tra pareti scoscese tra torrenti d’acqua che da ogni parte arricchiscono il Sunkosi, spesso centinaia di metri più sotto, la strada fangosa e pessima è a precipizio sul fiume e non ha alcuna protezione. Finalmente ecco Zagmu, un inverosimile agglomerato di case e botteghe abbarbicato a una parete scoscesa e coperta di vegetazione lussureggiante che scende per centinaia di metri verso il fondo della valle, il torrente, e il ponte “dell’amicizia” che segna il confine tra Cina e Nepal. In un traffico pazzesco di camion e macchine, e sotto la pioggia battente, troviamo la strada per l’Hotel Zagmu, una sorpresa di lusso e di pulizia che contrasta nettamente con il mondo circostante, a pochi metri dalle sbarre della dogana e del posto di polizia. Speravamo nella doccia, un lusso sibaritico da qualche settimana, ma l’acqua calda, peraltro molto reclamizzata, non c’é. Ceniamo con i nostri amici che lasceremo domattina. Ma in realtà l’addio è stato sulla cima del passo, nel Tibet vero del vento e dell’altopiano, nella distesa infinita di montagne brulle e falsamente verdeggianti. Se tutto va bene, domani sera saremo a Kathmandu.

Lunedì 28
Niente doccia, l’acqua calda non c’è ancora, e il mio eroismo si spinge al massimo a lavare i capelli sotto l’acqua gelata. Piove a dirotto e continuerà fino a sera. La procedura di uscita dal posto di frontiera cinese è abbastanza breve e indolore, poi si scende di nuovo per la ripida discesa ancora in territorio cinese fino al ponte dell’amicizia, per una strada resa pericolosa dall’acqua battente. Ogni tanto si incontra un inizio di frana, passaggi piuttosto difficili anche per il fuoristrada e soprattutto per il camion che porta i bagagli. In realtà passano enormi camion nepalesi con grande indifferenza per il precipizio sul cui fondo ruggisce il torrente, e per la carrozzeria dei loro mezzi. Sono carichi di cose e di persone che hanno l’aria di trovare la strada perfettamente normale, e così pensiamo che noi siamo eccessivamente apprensivi. Prima del ponte una fila di botteghe appese all’erta scoscesa che strapiomba sul torrente: faciamo il trasbordo dei bagagli su un camioncino trovato ad attenderci, salutiamo con appropriato calore (e mance) lo staff tibetano, e a piedi attraversiamo il ponte verso il posto di frontiera nepalese.  Il Sunkosi ha un volume impressionante, gonfio della pioggia che cade da giorni. Solita burocrazia nepalese, passaporti, e siamo in Nepal. Ci prende a bordo un taxi locale, una piccola Toyota berlina che ispira poca fiducia, guidata da un giovanissimo pilota. Comincia una corsa di cinquanta chilometri lungo il fiume, che sembra non finire mai. Pensavo che la strada da Nyalam a Zagmu fosse esposta e pericolosa, ma questa è molto peggio. La pioggia ha reso la strada viscida e fangosa, piena di frane, sempre strapiombante senza riparo sul fiume, in breve terrorizzante. Finalmente, il grande ponte e siamo sulla strada asfaltata: una sosta alla divertente locanda sul fiume per un vegetable curry, decisamente popolare ma piacevole. Dopo poco, ci sentiamo già a Kathmandu, ma ecco una frana seria, questa volta la strada è franata per circa cinquanta metri, e una pala meccanica sta cercando di liberare un camion incastrato nel mezzo. Dobbiamo attraversarla a piedi, scaricando i bagagli che i nostri amici nepalesi si incaricano di trasportare per noi, negoziamo il passaggio su un altro taxi dall’altra parte con un problema analogo, e poi via di nuovo questa volta senza intoppi verso la capitale. La vegetazione è decisamente entusiasmante, sia nella valle del Sunkosi che sulle colline prima di Kathmandu. Piante verdi e brillanti, e centinaia di specie meriterebbero un migliore botanico per riconoscerne i nomi. E’ il periodo della semina del riso durante il monsone e i campi sono affollati. Le terrazze ben disegnate e piene di contadini, con il loro telo di plastica sulla testa per proteggersi dalla pioggia, che zampettano nel fango. La pioggia ha creato vaste zone allagate soprattutto nei grossi paesi vicino a Kathmandu. Ci avviciniamo alla città, che finalmente si annuncia con il suo traffico demenziale.
L’ingresso all’Annapurna è trionfale: dopo un mese e mezzo di tenda e di guest house tibetane, questo è un grande albergo il cui lusso stordisce, poltrone morbide, pratino inglese, piscina, bagni che funzionano, portieri e camerieri che salutano. Telefonate a casa, una passeggiata in città, qualche piccolo acquisto nei negozietti del centro, la cena nel ristorante dell’Annapurna. Piano piano i grandi spazi dell’altopiano si allontanano: ritorneranno con il tempo con la loro luce, e la forza del vento nel pomeriggio. Domani sarà un altro giorno, uno dei due che ci separano dal grande aereo che ci porterà a casa via Vienna, così lontano dal Tibet. Il sonno ritrovato è forse la cosa più piacevole di questa mite altezza a 1300 metri.

Martedì 29
Questa mattina ritorniamo al tempio bianco sopra Bodhanat, a trovare il nostro Tulku, per ringraziarlo della benedizione e della gentilezza. Lo troviamo a colloquio con due americani di Chicago, che parlano di religione in tibetano. Gli porto lo tsa tsa di Mangnang  e gli racconto del Tibet che muore: mi sembra molto al corrente, ma è felice per lo tsa tsa che si porta alla fronte con rispetto. Dopo andiamo dal nostro amico Luca, al negozio di Kachalinka: all’ultimo piano ci offrono l’aperitivo in una splendida terrazza di fronte allo stupa. Un paio di grandi occhi guardano direttamente nei nostri e tutto il luogo è la solita intensa oasi di pace sospesa nel mezzo di questa città frenetica. Facciamo quattro chiacchiere e mastichiamo qualche oliva. Ci invitano a pranzo ed è una piacevole parentesi nella loro casa piena di begli oggetti tibetani, con la foto del Dalai Lama. Hanno due bambini piccoli e ci sembrano molto strani, in quel loro vivere isolati in questa lontana parte del mondo. Nel pomeriggio andiamo al Mandala Book point a trovare Bidur, il direttore, un fantastico libraio che conosce tutti e che fa con passione il suo mestiere. La sua casa editrice ha di recente pubblicato diverse cose interessanti sul Tibet, e ristampato il grande libro della Slusser sul Nepal.
La sera andiamo a Durbar square, (molta confusione e sporcizia: Kathmandu sta diventando invivibile) e poi a cena allo Yak and Yeti dove ci imbrogliano un po’ con il conto. Alla fine della giornata il monsone si sfoga con un po’ di pioggia.

Mercoledì 30
Magnifica giornata nonostante il monsone. Ci infiliamo nel traffico del Tamel e troviamo finalmente la sede di Ratna Pustak Bhandar. Passo un paio d’ore (forse tre) a rovistare tra i libri e naturalmente trovo il modo di spendere quattrocento dollari, ma è per lo studio e penso che valga la pena. Dopo pranzo  la situazione peggiora, con la visita al Mandala Book point, che ha copie del libro di Vitali e di Kvarne, sui Bon, oltre ai libri visti ieri sul Tibet. In ogni caso compero ancora un po’ di roba, grazie alla carta di credito. Un salto all’Asian trekking, poi Roberto può comperare i suoi scialli per i regali di rito. Stasera siamo invitati a cena da Persis (dirigente dell’Asian Trekking), e cerchiamo di mandare dei fiori, cosa non semplice perché non ci ha voluto dare l’indirizzo. E’ una serata molto piacevole, la casa di Persis è in una zona di Kathmandu tra lo stupa di Svayambunath e un altro monastero, famoso per essere la meta di pellegrinaggio delle madri che vogliono scongiurare malattie infettive ai loro figli. Lei e il marito vogliono aprire una una lodge turistica in collina a 3000 metri, e il marito è via per occuparsene. Hanno una bella casa a tre piani con due grandi terrazze, due sono affittati, la casa è grande, accogliente, e piena di gadgets elettronici. Ciuck, il bambino di Persis ha cinque anni ed è un meraviglioso monello estroverso. Mangiamo in terrazza, a base di riso e di piatti nepalesi. Persis è una Lepcha del Sikkim, una etnia Sikkimese che conta circa 50.000 persone. Una razza in estinzione, di abitanti dei boschi che conoscono le virtù medicinali delle piante, e 350 usi del bambù, con cui fabbricano ogni sorta di cose, dal carattere mite e cortese. Facciamo progetti per una spedizione in Sikkim, e  in Mustang, chissà. Ten Din, lo sherpa è della partita, discreto e silenzioso come sempre. Ricevo un bellissimo libro in regalo, è del 94 e riproduce le pitture murali del Tibet, Dungkar, Piyang, Tholing, Tsaparang e Shalu.

Giovedì 1 Luglio
Chandra ci aspetta alle nove fuori dall’albergo. Gentile e premuroso come sempre, ci offre una kata di addio. Mi rincresce che la gerarchia lo abbia escluso dalla cena, e dall’accompagnamento all’aeroporto. Persis e Ten Din ci accompagnano all’aeroporto. Altre Kata, saluti, abbracci. Il viaggio è finito, Kathmandu si allontana nel cielo pieno di nuvole.

Filed Under: appunti viaggi

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